Friday 20 March 2009

Grazie Faber

Se non l’avete ancora fatto, andate a Genova. Basta un giorno.

Mangiate la focaccia, fate ciao ciao ai delfini da dietro i vetri dell’acquario, passate davanti alla casa di Cristoforo Colombo e andate a Palazzo Ducale a vedere la mostra dedicata a Fabrizio De Andrè.

Una mostra che, grazie a una serie di installazioni interattive, non solo si guarda, ma si ascolta e si allestisce su misura. Ogni visitatore è infatti portato a costruirsi il proprio percorso, passando liberamente da una sala all’altra, fermandosi a curiosare nella vita, nella musica e nella poetica del cantautore.

De Andrè si mostra non solo come artista ma soprattutto come uomo, attraverso le testimonianze dirette delle persone della sua vita e i racconti dei personaggi creati dalla sua immaginazione.

Non importa quanto o quanto poco conosciate De Andrè… questa mostra racconta la storia di un uomo che ha trovato il suo posto nel mondo e che ha avuto il coraggio di restarci.

Fabrizio era un sognatore. E ha insegnato a tanta gente a sognare a occhi aperti.

“Ho sempre pensato che la musica debba avere un contenuto, un significato catartico: tutti gli sciamani, gli stregoni di tutti i popoli, che ben conosciamo, usavano il canto come medicina. Credo che la musica debba essere balsamo, riposo, rilassamento, liberazione, catarsi. Più semplicemente la musica, il canto, sono espressione dei propri sentimenti, della propria gioia, del proprio dolore. A volte addirittura un tentativo di autoanalisi e, analizzando te stesso, offri un via agli altri per analizzare se stessi.”


“Le canzoni quindi servono a formare una coscienza. Sono una piccola goccia dove servirebbero secchi d’acqua. Cantare, credo che sia un ultimo grido di libertà. Forse il più serio. Scrivere canzoni sta diventando una responsabilità sociale, ma se ne sono accorti in pochi. Esse entrano a far parte del patrimonio culturale di un popolo, sono parte della coscienza.”

“Sentii fin da subito che il mio lavoro doveva camminare su due binari: l’ansia per una giustizia sociale che ancora non esiste e l’illusione di poter partecipare, in qualche modo, a un cambiamento del mondo. Quest ultima si è sbriciolata presto, la prima, invece, rimane.”

Metafisica del blog

Continuiamo a parlarci addosso...

Dato che il mio livello di permalosità supera un buon 7 su 10, fare autocritica non è che mi venga così naturale.
Ma stavolta ce n’è davvero bisogno: devo riconoscere che il mio blog non funziona.
E il motivo è uno solo: il mio blog è noioso.

I post sono lunghissimi e prolissi, scritti fitti fitti e senza nemmeno una figura.
Non ci sono collegamenti ipertestuali (perché non sono capace di metterli), non ci sono video caricati (perché se ne vale la pena li hanno già stravisti tutti su youtube), non cè un player di musica. Ci sono solo righe e righe da scrollare. E in internet, dove tutto viene consumato nell’immediato, è troppo ambizioso pretendere che chiunque, anche gente che mi conosce, si fermi più di 2 minuti sulla mia pagina.

Ricominciando a frequentare l’universo dei blogger, mi sono accorta che i blog rientrano in 3 grandi categorie:

• Blog che, consapevoli di essere on-line, parlano di internet e di tecnologia, sfruttando a pieno tutto quello che la rete offre in termini di intertestualità
• Blog di stampo giornalistico, una specie di testata personalizzata in cui il blogger fa una personale selezione di notizie che ritiene interessanti e le commenta liberamente.
• Blog dalle ambizioni letterarie, che si leggono volentieri perché sono scritti bene, come un buon romanzo a puntate.

E poi c’è il mio blog… che è fermo al modello 1.0 per immobilismo, non affronta temi di scottante attualità, è scritto in italiano corretto, ma senza una prosa che ti tiene incollato paragrafo dopo paragrafo e che io uso –male- solo per mettere in vetrina i fatti miei.
Una versione extended della mia bacheca di Facebook. Ce n’era davvero bisogno?

Passando dalla metafisica alla psicologia, io lo so perchè ai miei pseudo-blog mi ci affeziono… perché mi danno l’impressione di mettere un po’ d’ordine tra tutto quello che transita, spesso senza fermarsi, nella mia testa. Vivo l’illusione che fermando delle riflessioni anche se in forma di bytes in uno spazio virtuale, io possa trasformare il pensiero in azione, e di conseguenza in esperienza.

Verba volant, post manent.

Wednesday 11 March 2009

Low cost fares, high price extras

C’era una volta la Ryanair.

Erano tempi non sospetti per i tursti-fai-da-te (no Alpitour!) che grazie al passaparola rivelavano al mondo l’esistenza delle compagnie low cost.

Ryaniar era la parola d’ordine per pochi giovani avventurosi, gente nata con lo zaino sulle spalle, la stessa gente che passava l’estate sui treni di tutta Europa con un biglietto dell’interrail.

E in realtà un pizzico d’avventura c’era davvero quando il pilota improvvisava quello che sembrava un atterraggio di fortuna in un campo dove le piste le disegnavano i trattori e un container faceva la parte dell’aeroporto.

E lì scattava, liberatorio, l’applauso. Perché se ho pagato il biglietto 20 euro andata e ritorno, come minimo l’autista (pardon, il pilota, lapsus!) è ancora in stage!
Ora invece, appena l’aereo tocca terra, lo steward incaricato fa squillare una ridicola fanfara sintetizzata cui segue l’annuncio che, una volta ancora, i passeggeri sono stati scaricati -in the middle of the fucking nowhere, d’accordo- ma perfettamente in orario.

A Ryanè, come dicono a Roma, mò te stai a allargà!

Va bene, vuoi atteggiarti a compagnia di bandiera, ti senti cresciuta, vuoi emanciparti… il problema è che la gente che lavora per te è rimasta una manica di cialtroni.

L’anno scorso, al ritorno da Londra, uno steward mi sveglia dalla pennica attaccandosi all’altoparlante per fare il seguente annuncio: “Si ricorda ai signori passeggeri che su questo volo è vietato fumare. Pertanto, chi verrà scoperto a fumare nei bagni, verrà gentilmente invitato a allontanarsi dall’aeromobile”.
Una battuta! Era una battuta! Scusa lo sconcerto iniziale, mister brillantone, ma dovrei lasciare a te la responsabilità di srotolare il grande scivolo gonfiabile giallo quando ci toccherà ammarare nell’oceano?

Ora che hai ottenuto l’attenzione del tuo pubblico con un improvvisato cabaret, perché non tieni il microfono acceso e inviti i passeggeri a raccontare una barzelletta?
Tanto con voi sembra sempre di stare in gita scolastica… non manca l’assalto per aggiudicarsi i posti migliori, come la fila da cinque sedili in fondo al pullman.
Cosa che non succedeva a scuola, dove non potevi corrompere l’autista, questi posti migliori te li puoi aggiudicare pagando un piccolo extra per il priority boarding.

Perché se è vero che le tariffe delle offerte restano basse, paragonate per esempio al prezzo della stessa tratta in treno, è cambiato l’atteggiamento con cui questo vantaggio viene offerto: prima c’era una sorta di complicità tra la compagnia e il cliente, che accettava di viaggiare meno comodo a un prezzo contenuto, adesso invece è come se la compagnia lanciasse una sfida al cliente: vediamo a che prezzo riesci a strappare questo biglietto..

E bisogna avere i nervi saldi per superare le 3 pagine di questionario in cui si è trasformato il form da compilare per acquistare il biglietto.

Hai bagagli da mettere in stiva? No, ho solo un trolley, sto via 2 giorni.
Il suo bagaglio a mano rispetta le dimensioni standard di 55 cm x 40cm x20cm? Sì, credo. io posso viaggiare se non rispetto le misure 90-60-90?
E pesa meno di 10 kilogrammi? 10 e mezzo, in realtà. Lascio?
Deve trasportare attrezzature per neonati? No.
… E neonati? Eh?
Ha attrezzature sportive o musicali da caricare? No.
Le ricordiamo che può comodamente trasportare in cabina la sua chitarra, se provvista di regolare biglietto. Le consigliamo di occupare due sedili attigui così può aiutare la sua chitarra a allacciare la cintura di sicurezza.
Vuole acquistare il priority boarding così da essere sicuro di riuscire a sedersi a fianco della sua chitarra? No grazie, non ce l'ho la chitarra!
Vuole acquistare il biglietto pagando con la carta di credito? Sono on-line, come faccio? metto una banconota da 50 euro nella porta USB del computer?
Allora acquista la possibilità di pagare con la carta di credito. Beh, sì, se la mettiamo così…
Vuole acquistare l’assicurazione ? Guardi, lasci stare, non mi interessa.
È sicuro di non voler acquistare uno straccio di assicurazione? In fondo sta per volare Ryanair… Per favore, mi dia questo biglietto!

Non si può abbassare la guardia nemmeno una volta saliti a bordo. Bisogna seguire l’esempio di Ulisse, che si era fatto legare all’albero della nave per resistere al canto delle sirene e legarsi le mani nella cintura di sicurezza per resistere al richiamo delle hostess e mettere continuamente mano al portafogli

La tattica è semplice ed è un’arma squisitamente femminile: si cerca di prendere il malcapitato per sfinimento: in un volo di un’ora ci sono due hostess che fanno la ronda, percorrendo il corridoio almeno 6 volte avanti e indietro, offrendo ai passeggeri qualsiasi cosa possa stuzzicare qualsiasi appetito.

Interessa un giornale? È gratis? La consultazione, certo.
Gradisce caffè, tè, panino, bibita, dolcetto, scherzetto, frizzi lazzi e cotillon?
Vuole acquistare un peluche a forma di aero della Ryanair?
… Un profumo, un anticellulite a infrarossi, un pianoforte a coda? E questi li chiamate souvenir?
"Don’t miss your chance to become a millionare!" Ha sentito? Ci siamo inventati anche il gratta e vinci. Interessa? Può vincere un altro viaggio Ryanair! Cos’è? Uno scherzo?

Non mi stupirei affatto se le hostess provassero a piazzare anche la propria nonna o questo depliant

"vostro da leggere per solo 2 sterline e 50".

"In caso di depressurizzazione, inserire una moneta da una sterlina nella fessura per liberare la maschera per l'ossigeno. Fissate la vostra maschera ma non aiutate gli altri passeggeri. Devono pagarsela da soli."

"Se l'aereo deve atterrare in emergenza, inserite la vostra carta di credito nell'apposito lettore. Una volta completata la transazione, uscite dall'aereo. Un membro dell'equipaggio sarà a vostra disposizione per ricevere il pagamento della vostra tassa di sbarco d'emergenza di 25 sterline."

Sunday 8 March 2009

Sindrome da abbandono

Appuntamento con un’amica in ticinese. Amica che non vedo da troppo tempo: quando ci siamo conosciute ci siamo viste praticamente tutti i giorni per quasi un anno e poi ne abbiamo lasciati passare altri due senza più riuscire a incontrarci. Come è possibile? È quello che mi chiedo anch’io: prima eravamo lontane e adesso che la distanza fra noi si è ridotta siamo troppo impegnate, o almeno così pare. Che la distanza fisica sia inversamente proporzionale alla distanza tra due anime?

Che fatica. I rapporti umani sono fragili, e a rischio di estinzione.
Non ci siamo più parlate da quando ci siamo salutate l’ultima volta. Nemmeno per telefono. Qualche messaggio ogni tanto, programmando di vederci “il prima possibile”. Cosa significa?
Eppure è una persona che conosco bene, con cui ho condiviso tanto, una persona che non esito a definire una mia amica. Amica immaginaria?

Fra l’altro, si telefonava meglio quando si telefonava peggio.
Ci avete mai pensato? Cosa succederebbe alla comunicazione se si eliminassero i cellulari, e tutti i dispositivi di messaggistica istantanea?
Il veicolo era meno versatile forse; prima del cambio di millennio quando si usciva il telefono rimaneva a casa, ben attaccato al suo filo, ma il suo uso era ben definito: una volta per telefono ci si parlava, ricordate?
E niente può sostituire la telefonata che arriva nel cuore della notte, da una persona che si è sorpresa a pensarti e che vuole dirtelo.

Ho divagato. Mi capita sempre più spesso, da quando mi sono accorta che sto invecchiando.
Che è un processo inevitabile, ma è meglio se continuo a ignorarlo.

Riprendiamo il filo: memori di tanti tentativi falliti e non ancora rassegnate, la mia amica e io decidiamo di riprovarci seriamente, e pianifichiamo il nostro incontro nei minimi dettagli.
Unico elemento lasciato in sospeso, l’ora dell’appuntamento; indicativamente posizionato nella fascia ora felice dell’aperitivo milanese, ma in balia delle ancor più milanesi variabili: il traffico, la caccia al parcheggio possibile e la minaccia Ecopass che ti fa sentire al sicuro solo quando lasci la macchina a casa.

… Tanto ci sentiamo per telefono… Infatti.

Esco dall’ufficio e faccio la telefonata di sopralluogo: il telefono squilla a vuoto.
Passato un quarto d’ora, faccio il secondo tentativo: ancora nessuna risposta.
Faccio passare altro tempo mentre mi preparo per uscire e quando mi incammino per raggiungere il luogo dove ci siamo date appuntamento riprovo per una terza volta, ma anche questa telefonata non va a segno.

Mantengo una calma invidiabile e mi trovo a elaborare congetture:
“Non avrà sentito… il telefono sarà finito sul fondo della borsa, soffocato da tutti quegli oggetti ingiustificati che rendono le borse pesanti e le donne isteriche perché non trovano mai quello che cercano e quello che si portano non serve mai”.
“Non si sarà accorta di aver tolto la suoneria. Succede anche a me”.
“Starà guidando, sicuramente ha l’autoradio accesa e la musica ha coperto il suono del telefono. Magari sta cantando, come faccio io quando sono in macchina da sola. Chissà cosa canta?”.
“Ha dimenticato il cellulare a casa. Sì, deve essere così. Ecco perché non risponde!”.

E poi, tutto a un tratto, qualcosa si rompe, e la logica viene spazzata via da una forma fulminante di sindrome da abbandono. Tutto è chiaro: la mia amica non verrà. Inutile cercare giustificazioni.

Ma non ci metto una pietra sopra, Non ancora. Voglio sapere come è andata.
Se ne sarà dimenticata? Ma se l’abbiamo deciso oggi! Questa non si può nemmeno definire memoria a breve termine!
O forse, prospettiva agghiacciante, mi ha detto di sì vinta dalla mia insistenza, anche se in realtà non ha nessun desiderio di vedermi. In fondo l’invito è partito da me.
Anche questo è possibile, ma quanto fa male? E poi, può essere una motivazione valida per non presentarsi a un appuntamento? Di solito ci si nasconde dietro a una scusa, una qualsiasi.
Di solito ti muore una zia molto anziana e molto malata.

In questo turbinio di ipotesi l’autocommiserazione prende il sopravvento, e la parabola già discendente crolla a picco; se prima c’ero rimasta male ora sono inconsolabile: “sono così noiosa?”, “io uscirei con me?”, “nessuno vuole passare il suo tempo in mia compagnia”,
“e comunque sono sempre l’ultima scelta”, fino a arrivare all’assioma: “nessuno –a parte mamma e papà, ma loro non contano- nessuno a questo mondo mi vuole bene!”.

E proprio quando ci sto prendendo gusto a piangermi addosso, ecco che mi arriva un messaggio.
Leggo il mittente: è lei. Sudo freddo: la risposta che non ho trovato è lì, a portata di tasto.
Ma prima di leggere il testo, svelando così l’arcano, pregusto sadicamente una lista di punizioni adeguate e direttamente proporzionali alla futilità della motivazione: più debole la scusa, più alta la posizione nella mia lista nera.

Sono troppo amareggiata per osservare cinicamente che fare uscire dalla mia vita una persona a cui non interesso più significa fare il suo gioco: facilitarle l’uscita di scena, risparmiarle l’evasione con le lenzuola annodate per srotolarle il tappeto rosso.
Com’è che non riesco nemmeno a trovare un modo per vendicare l’onta subita?

È un minuto che fisso il monitor del cellulare, l’icona del messaggio che lampeggia, la bustina ancora chiusa. Leggi: “scusa Cla, non ho realizzato, sono in ospedale perché la mia coinquilina ha avuto uno shock anafilattico. Non me ne sono accorta perché ho il muto, e nella confusione ho dimenticato di chiamare.”

Merda! Questa mi sembra una motivazione più che valida! L’amarezza viene soppiantata dal senso di colpa. “Come ho potuto pensare che una mia amica…”; caleidoscopio di emozioni altalenanti, e tutto nel giro di un ora.

Però sul muto ci avevo azzeccato!

La morale di questa storia è: quanto siamo vulnerabili? E quanto abbiamo bisogno di comprensione? L’uomo è un animale sociale, costantemente alla ricerca di un altro in cui rispecchiarsi e trovare sostegno.
E forse il segreto della sicurezza in se stessi è da ricercarsi proprio nell’approvazione altrui.

E lasciando perdere la morale, dobbiamo però riconoscere che i mezzi di comunicazione non aiutano a comunicare davvero. Io so solo che per telefono non riesco ad esprimermi come vorrei... faccio fatica a stabilire un contatto con la persona all’altro capo del filo. Filo che quando era fisico, quello del grigio scatolotto della SIP, mi attorcigliavo attorno a un dito per rallentare il battito del cuore, che insieme ai palmi sudaticci segnalava una telefonata che era diversa da tutte le altre. Non ho ancora trovato la funzione antistress nel mio cellulare.

Sunday 1 March 2009

Sindrome da disoccupazione

Scrivo travolta dall’onda –o dall’orda- della frustrazione, spinta dal desiderio di scuotere il mondo dalle fondamenta. Mi sentirei meglio solo se vedessi collassare su se stessi tutti i castelli di carte che ci svendono come surrogato della realtà.

Non so se si intuisce. Sono incazzata senza appello.

La classica goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato scoprire, attraverso una mail tanto neutra da assomigliare a un comunicato stampa, della messa alla porta di un mio amico.
Otto mesi di manovalanza in una sedicente etichetta discografica, sottopagato ai limiti della legalità, e una volta scaduto il contratto un calcio in culo ben assestato.

Nemmeno “grazie, arrivederci”. Senza appello.

La mail di Marco era talmente sottotono e rassegnata che, una volta assimilata la notizia, l’ho tenuto un quarto d’ora al telefono sottolineando la mia –già ampiamente comunicata- visione dell’intera vicenda. Ero talmente lanciata che coniavo slogan!
Ho fatto la telefonata in esterna, spedita com’ero per commissioni, e urlavo in quel telefono come se potesse farmi da megafono.
Ero l’unica a prendere parte al mio personale corteo improvvisato a sostegno dei lavoratori precari. Ci credevo così tanto che devo aver convinto anche un paio di persone che si sono trovate a aspettare con me il verde al semaforo.

Ho un futuro, come sindacalista.
O come venditore di batterie di pentole antiaderenti
(che-se-me-le-compri-tutte-ti-regalo-il-materasso-in-lattice).

Non penso di aver risollevato il morale a Marco, ma la mia non voleva essere una telefonata consolatoria. Non c’era nessuno da consolare.
Questa non è una storia di occasioni perdute o di fidanzate apparentemente fedeli che tradiscono con l’apparente migliore amico. Manca la premessa, una situazione di benessere da cui si viene espulsi senza preavviso. Manca il piumone che si smaterializza mentre ti dormi una grigia domenica mattina di novembre.
Questa è solo la conferma che nonostante l’impegno, i compromessi accettati e la speranza che è sempre l’ultima a morire, fare un lavoro che sia gratificante stia diventando una chimera.
E ci sta che il suddetto lavoro possa essere più gratificante a livello umano che economico, siamo preparati anche a questo. Ma a lavorare solo per la gloria si deve rinunciare a troppe cose.
E la mia telefonata a Marco voleva essere una dimostrazione di solidarietà.

In fondo siamo tutti sulla stessa barca, il Titanic, e subito dopo aver impattato con l’iceberg.
Ancora ce la balliamo, ma ci resta ben poca scelta.

E non ditemi che la mia è una visione catastrofista perché sono lucida e determinata a fotografare la realtà.

Mi sono fatta un paio di conti in tasca. E non ci ho trovato nemmeno i 50 euro di emergenza.
Come posso continuare a ballare spensierata al suono dell’orchestrina se devo cercare in tutti i modi di stare a galla?

Mi sono trasferita a Milano per avere maggiori possibilità di trovare lavoro nel campo in cui mi sono specializzata attraverso anni -e anni- di università.
Il lavoro l’ho trovato, dopo aver assolto l’immancabile gavetta (3 mesi di stage a 150 euro –per 200 ore- al mese), e alla fine ho lavorato quasi un anno per portarmi a casa puliti sei mesi di stipendio (con tanto di vacanze forzate a luglio e rientro procrastinato a settembre per non concedermi il lusso di due settimane pagate in più).

Non mi vendo a peso. Non lavoro a cottimo.
Il progetto che campeggia sul mio contratto non lo riconosco come mio.
Mi si riconosce lo status da freelance, ma non lo stesso grado di libertà nella gestione del lavoro.

Superfluo specificare che le ferie sono a mio completo carico e se mi ammalo è solo un problema mio.

Niente garanzie, niente prospettive, niente gratificazioni.

Ho rotto il salvadanaio; un po’ per disperazione, un po’ per curiosità e un po’ per sfogarmi:
senza indugio, dato che non mi serve!

Risulta quindi che lavoro esclusivamente per pagarmi casa e spese, in pratica per finanziarmi la possibilità di stare a Milano a lavorare.
Mi sfugge qualcosa o in tutto questo manca una logica? Non è il classico gatto che si morde la coda? Non dovrei lavorare per poter dare un nome ai miei progetti futuri, siano essi una casa, una famiglia, una macchina o semplicemente un weekend fuoriporta?

Cosa voglio? Cosa chiedo? Cosa spero?

Non voglio più essere portata a considerare il mio lavoro una sorta di privilegio; in fondo se ho qualcosa da fare è perché ce n’è bisogno, io, guarda caso, ne sono capace e il mio contributo risulta fondamentale.

Voglio altre possibilità. La possibilità di dimostrare quanto valgo. Da qualche parte bisogna pur cominciare; una prima esperienza l’hanno fatta tutti!

Chiedo che il mio impegno venga riconosciuto, a livello economico ma soprattutto a livello umano. Dietro al lavoro c’è sempre una persona. E se la persona si sente valorizzata, lavora meglio.
Il giusto entusiasmo si ottiene con una bella iniezione di autostima. E niente fa meglio all’autostima che un complimento sincero.

Spero che lo stage, in un futuro non troppo lontano, diventi lo strumento che permetta la reciproca conoscenza a lavoratore e datore di lavoro, e che una volta concluso, se entrambe le parti sono soddisfatte, porti alla stipulazione di un contratto.
Lo stage non può più essere un bieco espediente al servizio dello sfruttamento, che consente di ottenere manodopera a costo zero. E non può superare i tre mesi. In fondo basta una settimana per capire se si dispone delle risorse adeguate dell’impegno richiesto. E forse basta il momento del colloquio perché qualcuno ti consideri “la persona giusta”.

In questo momento di sconforto, affido questa mia piccola lista dei desideri alla speranza che resta e che non mi abbandonerà mai.

Alzo il bicchiere mezzo pieno e brindo a un futuro meno nebuloso.

A noi, il nuovo precariato!

Buoni vecchi propositi

Ma anche vecchi buoni propositi, dato che alla fine, gira e rigira, sono sempre quelli.
Almeno finché non raggiungerò l’età della ragione (anagraficamente già sfondata).
E date le premesse non succederà nemmeno nel 2009.

la lista che segue l'ho stilata a inizio anno, l'ho pubblicata sulla prima versione di questo blog e da allora non l'ho più letta. Ho deciso di riportarla qui perchè mi faccia da monito per i 5/6 di anno che mi restano.
Non stupitevi se vi accorgete che in poche settimane sono già riuscita a non tenere fede al punto numero 7. Sono di nuovo qui, più recidiva -e inconcludente- che mai.

Ricomincia l’anno –anzi, a essere precisi ne è finito uno e ne è iniziato uno nuovo, ma non mi sono ancora accorta della differenza- e mi prende l’ansia di fare progetti.
Io che sopravvivo solo perché ho imparato a affrontare la vita giorno per giorno (pianificando al massimo qualche weekend) provo un timore reverenziale nei confronti dall’anno e dalla sua ordinata suddivisione in segmenti temporali sempre più brevi, incastonati uno nell’altro come le bambole di una matrioska: stagioni, mesi, settimane, giorni… e resto incastrata nella smania di riempire questi contenitori.

Regola numero uno: mettere i propositi per iscritto, perché da suggerimento si trasformino col passare inesorabile di giorni, settimane e mesi in monito e infine in condanna.
Gli obiettivi non raggiunti aiutano a definirne di nuovi: tra i buoni propositi che non sono riuscita a realizzare nel 2006 c’era quello di fidanzarmi con un qualsiasi membro degli Strokes. Nel 2007 ho ripiegato sul chitarrista degli Psycho Preppies (band varesina dalle belle speranze). D’altra parte, io non sono Drew Barrimore. Non ancora, almeno.

Regola numero due: abbondare con i buoni propositi. Se la lista è lunga almeno un paio si rischia di imbroccarli.
Piccolo trucco: se non si trovano abbastanza buoni propositi se ne possono aggiungere anche di cattivi alla stessa lista.

Regola numero tre: fare come gli architetti, cioè progettare in grande. Se davvero voglio darmi da fare voglio che il risultato non sia un monolocale, ma almeno un grattacielo!

Ecco i buoni propositi che tormentano me:

1) Mangiare meno, mangiare meglio. E magari imparare a cucinare. Anche piatti che presentano più di tre ingredienti e che per essere mangiati devono essere tolti dal contenitore. Mi farò regalare un microonde.
Non intendo pormi limiti sul bere, la disidratazione è una brutta cosa.

2) Impegnarmi in una qualsiasi attività fisica. Ieri sono stata 4 ore sugli sci e oggi ogni volta che mi muovo sono sorpresa da fitte a muscoli che non pensavo di avere.
Mia madre fa mezz’ora di cardio fitness ogni mattina prima di colazione, mio padre scala montagne a piedi d’inverno e in bicicletta d’estate, mia sorella segue (o meglio insegue) il suo ragazzo quando fa le gare di atletica. Perché a me semplicemente manca la voglia? Sarò allergica al sudore? Vedrò di non far scadere anche quest’anno l’abbonamento alla piscina. Mancano 4 ingressi…

3) Smettere di cominciare a fumare. Già sono patetica: sono la persona meno viziosa che conosco e a 26 anni sono ormai fuori target per sentirmi trasgressiva con una sigaretta (che fra l’altro fumo solo nelle notti di luna piena). Fossi alle medie potrei chiudermi nei bagni a ricreazione.

4) Scrivere, scrivere, scrivere. Fino a quando non invento Harry Potter e 2000 pagine dopo divento più ricca della regina d’Inghilterra.

5) Ripassare storia. Numerose sfide a Trivial Pursuit durante il periodo natalizio hanno sottolineato gravissime lacune nella mia percezione della successione di eventi e personaggi da Roma antica alla seconda guerra mondiale.
Non che fossi una cima nemmeno nelle altre materie… Posso rifare gli esami di quinta elementare da non frequentante?

6) Frequentare un corso pseudo artistico, alla scoperta di talenti nascosti. Ci ho già provato nell’adolescenza, e con risultati tragicomici: al saggio di danza ero quella nell’angolo in fondo (per 3 anni di fila) e quando mi sono cimentata con il teatro mi è stata affidata la parte di una ragazzina muta (non avevo la preparazione per interpretarne una sordo-cieca).

7) Riaprire il blog (e fino a qui, bastano 3 clic). E già che ci sono aggiornarlo, di tanto in tanto…

Effe Esse e affini

Attenzione: i fatti narrati di seguito non sono opera di fantasia e tra i personaggi protagonisti delle vicende ci sono anch’io! Giurin giurello! I dati forniti non sono di prima mano ma d’altra parte il tema trattato non è da ultim’ora e noi non facciamo gli schizzinosi.

Milano, Stazione Centrale, martedì 13 gennaio.

Claudia (fingendo cortesia e ingoiando bile): “buonasera, il mio treno aveva quasi un’ora di ritardo, ho diritto a qualche genere di rimborso?”

Bigliettaio FS (sorridendo di gusto sotto a inesistenti baffi): “è già tanto che è arrivata, signorina”.

Claudia (ricambiando il sorriso per automatismo, ma elaborando un articolato insulto che decide infine di non pronunciare perché il gioviale bigliettaio pesa 130 kili e una soglia di irritabilità impossibile da valutare): “capisco… allora potrebbe darmi un biglietto per tornare a Brescia?”

E questo lo chiamate customer service?
Cerco solidarietà lanciando uno sguardo complice al bigliettaio vicino: mi sorride mestamente, quasi a giustificarsi, un armadio d’uomo con una vistosa cicatrice che gli percorre un’intera guancia. Con una benda sull’occhio sarebbe perfetto per fare da comparsa in Pirati dei Caraibi.

Non voglio aggiungere la mia voce al coro delle lamentele nei riguardi delle Ferrovie dello Stato. Non è carino sparare sulla Croce Rossa. E poi l’ho fatto spesso, quando ero pendolare.
Lamentarsi serviva solo a lavarsi di dosso la frustrazione di non sapere mai a che ora saresti arrivato a destinazione… Perché non è il ritardo in sé che fa perdere le staffe, ma il ritardo non giustificato.

Quanto tempo ho passato su un treno in movimento (lento, ma in movimento)? Che percentuale della mia vita?
Fino a 10 ore a settimana nel periodo d’oro, quando era avanti e indietro a Milano dal lunedì al venerdì. E quanti viaggi ho fatto senza poter appoggiare il culo su un sedile? Troppi. Anche l’ultimo, venerdì, stipati in 12 nello spazio tra le porte. Ho fatto i 3 gradini per salire sul vagone e mi sono fermata lì: corridoi congestionati, gente dappertutto. Sospetto che qualcuno si sia fatto l’intero viaggio chiuso nella ritirata, e che abbia viaggiato più comodo di me, accoccolato sulla tazza del cesso. Io ho usato il mio trolley come sgabello ma la combinazione maniglia - coccige non si è rivelata ergonomica…

È stata diffusa la notizia che la Regione Lombardia non intende rinnovare il contratto alle Ferrovie dello Stato se queste non si daranno una regolata per limitare scioperi e ritardi.
I vertici delle FS con aria di sfida hanno risposto che sono curiosi di vedere chi si presenterà per occupare il loro posto garantendo lo stesso numero di collegamenti. È ora che gli svizzeri entrino in campo. Voglio treni di cioccolato puntuali come orologi a cucù!

Capitolo a parte meriterebbe l’alta velocità.
Si è laureata una mia amica di Roma e mi ha invitata alla festa. Presente! Lo zaino ce l’ho sempre pronto sotto al letto, compro un biglietto e sono da te.
Siete stati sul sito di Trenitalia recentemente? Provate a cercare un treno da Milano a Roma. Ne troverete un’infinità, uno ogni mezz’ora, ma se ci fate caso sono tutti treni ad alta velocità. È chiaro che la Freccia Rossa è il fiore all’occhiello, la soluzione migliore, un servizio finalmente all’altezza degli standard europei, ma… non è che sia proprio alla portata di tutti… io ho rotto il salvadanaio e non ci ho trovato i 136 euro necessari per andare a Roma e assicurarmi il rientro.

Ho cercato nel sito altre soluzioni, utilizzando treni come intercity e interregionali, ma il ventaglio di scelte si è notevolmente ridotto. Il sistema è ostico, per me che risolvo ogni incomprensione con il mio pc premendo ctrl+alt+canc: per concludere la ricerca di un itinerario con successo bisogna usare una serie di scorciatoie che sembra di dover liberare Zelda all’ultimo livello e senza vite di riserva. E il risultato sembra tarato sugli standard di viaggio di fine ‘800… vuoi fare andare a Roma con soli 45 euro (ma poi ci resti, perché questo è solo il prezzo dell’andata)? Preparati a un calvario di sole 7 ore di viaggio (anche questo one-way)!

Lo zaino questa volta è rimasto sotto il letto, e il morale è sceso sotto i tacchi. Ma non lascerò più che uno stupido treno mi rovini la festa di laurea (degli altri)!
Avrò un po’ di fine settimana impegnati: mi chiuderò in garage a assemblare la DeLorean. Ecco la soluzione. Se voglio davvero viaggiare come si faceva 200 anni fa con la DeLorean potrò andare a farmi direttamente un weekend nell’ ‘800!

Varese, Aeroporto di Malpensa, martedì 13 gennaio.

Inaugurazione del nuovo corso di Alitalia che riprende il servizio sotto la bandiera della CAI e che, per mantenere continuità col passato e uno standard tarato sull’infinita pazienza dei clienti abituali, ha deciso di tenere a terra 11 aerei. Che bella figura che ci facciamo con quei primi della classe di Air France!

Dove vogliamo andare con questa immobile Italia, dove risulta già difficile muoversi all’interno dei confini? Anche i –pochi- cervelli rimasti in patria fanno fatica a fuggire così!