Tuesday 20 December 2011

Amarcord


Dieci anni fa varcavo per la prima volta il portone di via Salvecchio a Bergamo alta, entrando in punta di piedi nel boschetto della mia fantasia, altrimenti conosciuto come università.

Settimana scorsa, a più di sei anni dalla mia laurea, sono tornata in una delle sedi dove andavo a lezione con il pretesto di usare indisturbata i bagni. Mi sono di nuovo persa nei corridoi, registrando cambiamenti minimi, se escludiamo che gli sbarbati del primo anno appoggiati alle colonne in cortile non hanno facce conosciute.

Ho perso un po’ di gente per strada, nonostante grazie a Facebook si riesca a seguire le tracce di chiunque. L’estate scorsa, ripercorrendo catene di tag sono venuta a sapere che si è sposato un mio ex compagno: tra gli invitati c’era l’intera squadra del calcetto fondata in aula studio, che ha affrontato la foto di rito con la maglietta della divisa e i pantaloni calati.
Goliardia! E pensare che non c’è foto di gruppo che li ritragga con i pantaloni: fa ridere una volta, fa sorridere la seconda, ora avete 30 anni e non siete proprio la combriccola di “Amici miei”. Se non la smettete prima di diventare padri di famiglia, scatta l’effetto cinepanettone.

Lasciata la facoltà, ho fatto una passeggiata in via Colleoni, con l’idea di prendere un caffè in uno dei baretti in cui bivaccavo nelle numerose ore buche. A città alta i cellulari ancora non prendono, ma gli schermi al plasma ormai campeggiano ovunque e il mio pub preferito è stato rimpiazzato da un anonimo punto vendita di una catena di profumerie. È lo specchio dei tempi, mi sono detta: dal caffè letterario -anche se le nostre pause pranzo non erano propriamente ritrovi di intellettuali- al punto d’incontro delle shampiste preoccupate per la sorte degli inquilini della casa del Grande Fratello.

Sopraffatta dal magone, provo a telefonare a Laura, vecchia gloria dei tempi di scienze della comunicazione, dimenticandomi che mandando un piccione viaggiatore avrei più probabilità di recapitare il messaggio: il cellulare non trova la rete e io cerco di distillare i sentimenti che mi pervadono in un sms che invierò una volta rientrata sotto il rassicurante ombrello gsm. Perché bisogna dirlo alle persone che ci hanno cambiato la vita che ce ne siamo accorti del favore che ci hanno fatto.

Continuo la discesa verso città bassa: ho appuntamento con Paola, un pezzo della mia esperienza accademica che mi sono tenuta stretta: con Paola, che da un paio d’anni è la mamma più bella del mondo, e che il mese prossimo convolerà a nozze, ci sono cresciuta, o almeno lei cresceva mentre io le riversavo addosso la frustrazione causata della fatica che sto tuttora facendo a crescere.

Nonostante mi trovi bloccata a anni luce di distanza dai suoi traguardi, riconosco che ne ho fatta di strada, da quando i pomeriggi in piazza Vecchia scivolavano nell’indecisione se presenziare le lezioni o prendersi un gelato, che “con un sole così, chi ha voglia di chiudersi in aula?”.

Non posso dimostrarlo di essermi allontanata molto: a conti fatti ho quasi 30 anni, nessuna prospettiva di carriera, una collezione di esperienza lavorative che non intimidirebbero nemmeno uno stagista, sono disinnamorata, e non ho nulla su cui appoggiarmi per costruirmi un futuro. Invece dell’ambizione, spesso ho scelto la comodità. E non riesco a vedere più in là del dopodomani. Non mi sento adulta.

Eppure, ripensando al 2011, riconosco che qualcosa nella percezione di me stessa sia cambiato, e mi abbia portato verso scelte azzardate, e non facilmente condivisibili: come quando, in una congiuntura economica terrificante, ho deciso di non accettare un posto di lavoro perché sentivo il bisogno di ascoltarmi e capire che direzione prendere. O come quando, perdendo un amore alla cui ombra mi stavo annullando, ho imparato a amare me stessa.

Il desiderio di prevalsa, per dimostrare agli altri che non sono solo quanto riportato nel curriculum, è stato sostituito da una nuova consapevolezza: non sta agli altri dirmi cosa posso o devo fare perché la decisione spetta solo a me.

E ho viaggiato. 3 mesi su 12 (il minimo indispensabile). E questo è il regalo più grande che si possa fare a un’anima che non riesce a staccarsi dal pensiero di sé stessa. C’è dell’altro, oltre all’autocommiserazione: c’è la vita.

E voglio viverne ancora di anni così burrascosi, voglio cambiare idea, voglio stravolgere piani, voglio provare, sbagliare e riprovare fino a quando non troverò il mio posto nel mondo.

E quando lo troverò, preparate bottiglie e aspirine, perché siete già da ora invitati all’housewarming party meno adulto cui abbiate mai preso parte.

Tuesday 22 November 2011

Alone, not lonely


Nelle ultime settimane mi sono inventata tutta una serie di appuntamenti solo per avere la scusa di portare a spasso me stessa: sono stata al cinema, al ristorante, in sauna e a bere un caffè accompagnata al massimo da un libro.

E non mi sono annoiata mai.

Mi sto viziando in modo ingiustificato, dato che è arrivato il momento di mettersi sotto, e non posso premiarmi così prematuramente, ma tant’è...

Niente quarti d’ora passati a prendere freddo e perdere pazienza a una fermata, chiedendoti se quello che accosta sia l’autobus che ha preso il mio amico; e quando quella in ritardo sono io, niente sms mandati all’ultimo con la giustifica.

L’unica cosa che mi manca è una mano da stringere durante le lunghe passeggiate: ho provato a camminare tenendomi le mani, ma non c’è modo di farlo funzionare come surrogato.

Al ristorante mi metto sempre nel tavolo all’angolo, quello defilato, destinato alle coppie che non vogliono distrazioni mentre si guardano negli occhi: una sedia la uso per la borsa e la giacca, su quella di fronte mi ci siedo io.
“È da sola?” mi chiede il cameriere che si è avvicinato con due menù.
“Secondo te?”, mi verrebbe da rispondere, ma mi limito a sorridere, annuire e strappargli il mio menù dalle mani.

Sono sola. Che non vuol dire necessariamente che mi senta sola. È che a volte non ho grandi alternative: se alle tre di pomeriggio di giovedì mi viene voglia di andare a mangiarmi una ciotola di ramen in cui nuota un filetto di salmone, basse sono le probabilità che riesca a trovare qualcuno che si dimostri non tanto interessato, ma perlomeno libero.

La novità è che, quando la voglia mi assale, la soddisfo così su due piedi, senza lasciare che nessuno mi metta davanti al fatto che potrei benissimo farne a meno, o almeno aspettare un momento più adatto, tipo quando posso invitare qualcuno.

Sin dall’adolescenza ho convissuto con un bisogno di socialità che sfiora la dipendenza, e fra tutte le persone che conoscevo quella che mi incuriosiva di meno ero io. La novità è non avere più paura di rimanere da sola. Bastava provarci.

Nel 2011 mi sono concessa il lusso di riprendermi il mio tempo: ho lavorato il poco che bastava per mantenermi, ho viaggiato come non ero mai riuscita a fare e ho imparato a non preoccuparmi di quello che gli altri possono pensare; se vado al cinema da sola “povera, è single, e ha quasi 30 anni!”, se passo un paio di mesi senza lavorare “povera, con tutto quello che ha studiato, e ha quasi 30 anni!”.

E non è che ora che ho scoperto di piacermi non provi più il desiderio di passare tempo con i miei amici: Il tempo che dedichiamo agli altri non può essere direttamente proporzionale all’amore che proviamo per loro: ci si mette la vita, con i suoi doveri e le sue distanze, a intralciarci i piani.

E nonostante questa dichiarazione di indipendenza, non sono stata lasciata da sola: venerdì scorso mi è successo qualcosa di straordinario.
Dovevo uscire a cena con delle amiche: il piano era quello di una tranquilla serata fra donne. Angela mi recupera alla fermata del tram: è da sola, e delle altre non si è più saputo nulla. Poco male.
Ci incamminiamo verso il ristorante, e sto ancora parlando con Angela quando impugno la maniglia e nel bel mezzo di una frase apro la porta.

C’è una tavolata con una dozzina facce amiche che mi sorridono.
Smetto di parlare. Cerco di fare mente locale.

Inizialmente penso di essermi dimenticata il compleanno di qualcuno:

“Cazzo, che figura di merda! Ma tutti allo stesso ristorante?”

Questo pensiero è seguito a ruota dalla presa di coscienza che se quella è una festa di compleanno, io non sono stata invitata:

“Non sono in lista? Eccheccazzo!”

Solo dopo essermi sentita in colpa e offesa, tutto questo pietrificata sulla soglia, capisco che quelle persone sono lì per me. E che non hanno smesso di sorridermi fino a quando il sorriso non gliel’ho restituito:

“Oh cazzo… Festa a sorpresa… Per me!”

C’è ancora qualcuno a cui fa piacere avermi intorno.
E trovarmeli tutti raggruppati nella stessa dimensione spazio-temporale ha reso lampante la portata di quello che due anni a Francoforte mi hanno regalato e che nessuno, nemmeno la Claudia che mi sta facendo una corte spietata, potrà portarmi via.

Wednesday 16 November 2011

The world is your oyster

Negli ultimi anni ho avuto la fortuna di conoscere dei viaggiatori.

È facile riconoscerli, da quando la Routard ne ha messo uno in copertina: i viaggiatori hanno lo zaino, i turisti hanno il trolley tagliato su misura per la cappelliera dell’aereo; diversa la forma, la sostanza in entrambi i casi consiste in biancheria, spazzolino da denti e qualcosa per ammazzare i momenti morti.

Ma è ancora più facile approcciarli: i viaggiatori sono quelli che non vedono l’ora di parlarti dei posti che hanno visto, i turisti sono quelli che paragonano ogni posto a casa, e casa, si sa, vince sempre.

E io voglio visitare quei posti attraverso le loro parole, voglio sentirmelo dire ancora che l’India o la ami o la odi, che ascendere Machu Picchu all’alba è un’esperienza mistica e che in Thailandia non ci sono solo i Full Moon party, ma alla fine se non vai per quello allora le spiagge della Cambogia sono meglio.

Su una barca di legno tra Lombok e Flores ho condiviso i 50 metri quadri calpestabili per 3 giorni con 10 viaggiatori, tra cui Karine e Gerald, francesi di Nancy, impegnati in un viaggio di 12 mesi intorno al mondo.

Programmare un viaggio del genere, o semplicemente gestirlo giorno per giorno, è di per sé impresa titanica. Loro, oltre a sopravvivere, sono riusciti a tenere un blog sempre aggiornato. L’ultimo post scritto dall’India annunciava che il loro rientro era questione di giorni. E mentre lo leggevo mi ha preso un magone manco fossi io quella che aveva il biglietto di ritorno.

Un viaggio così è fatto della stessa materia di cui son fatti i sogni. E per metabolizzare un anno di viaggio ci vuole tanto tempo, ma soprattutto tanto sangue freddo.

Io l’ho provata nel mio piccolo, questa transizione: sei contento di essere a casa, di dormire nel tuo letto, di rientrare in possesso del tuo guardaroba dopo settimane di infradito e t-shirt maltrattate, di mangiare il tuo piatto preferito cucinato da mammà, che ti vede deperito, di rivedere i tuoi amici, tu abbronzato e loro con i capelli diversi da come te li ricordavi, di essere per cinque minuti al centro dell’attenzione quando rispondi alla domanda “qual è il posto più bello che hai visto?”, di riordinare le foto e le idee…

Ma poi, inevitabilmente, scopri che tutto il tuo viaggiare ti ha riportato solo al punto di partenza. Che non ti sei mosso di un millimetro. Che hai provato ad allontanarti dalla tua realtà, ma alla fine sei caduto di nuovo tra le sue braccia.

Come la laurea: ti sembra di aver raggiunto un obiettivo e invece, mentre eri impegnato a crescere in sapienza, età e grazia, c’era la vita che ti aspettava. Granitica. Immobile.

Perché viaggiare, allora? Perché investire tanto tempo, energie e soldi quando per vedere il mondo basta una connessione internet?

Me lo sono sentito chiedere lo scorso giugno, quando a una festa ho rivisto vecchie conoscenze che mi hanno presentato gente trasferitasi a Francoforte mentre io ero in viaggio. Uno dei nuovi arrivi, per nulla impressionato dai miei racconti ma senza ombra di retorica mi fa: “perché ci sei andata?”.

La domanda che non ti aspetteresti mai, a cui ho deciso di rispondere: “perché è un modo per scoprire la bellezza dove non ce lo aspettiamo”.
O questo almeno è come suonava alle mie orecchie. In realtà, ebbra di improvvisati cocktail, penso di aver sbrodolato un sognante “cause it’s awesome, man!”.

Perché la bellezza non viene assimilata solo attraverso gli occhi, ma arriva come un pugno nello stomaco, e ti lascia così, inerme ma avvolto in un profondo senso di gratitudine per esserne testimone.

E perché questo mondo, nonostante gli acciacchi, è ancora un posto meraviglioso in cui vivere. E viaggiare può aiutare a ricordarcelo.

Sunday 6 November 2011

Indian Summer


È il 6 di novembre, e sono seduta sul lungofiume.
Mi sono ampiamente rimproverata di essere uscita di casa senza macchina fotografica. È una di quelle giornate con la luce orizzontale, che disegna ombre lunghissime e fa brillare l’acqua del fiume, i vetri delle finestre e i sorrisi.

È la domenica di una settimana di transizione che mi ha regalato piccoli momenti di umanità.

Come quando martedì sono andata a cancellare il canone della TV e l’impiegata, venuta a sapere che sto per lasciare Francoforte, mi ha confessato che rimpiange ancora di non essere andata negli Stati Uniti quando da studente ne aveva avuto la possibilità, e poi, stringendomi la mano e guardandomi negli occhi, mi ha augurato buona fortuna. Credendoci davvero.

Come quando mercoledì sera il padrone del ristorante per cui ho lavorato ha offerto una pizza a me e ai miei due amici, siglando il tutto con una stretta di mano e la dichiarazione “Claudia è la cameriera più brava che abbia mai lavorato qui”. Ero andata a trovarlo sperando avesse racimolato i soldi che tuttora mi deve. Ma questa è un’altra storia…

Come quando giovedì ho postato su facebook che la mia stanza sarà disponibile da fine mese, cercando un amico-di-amici senzatetto che mi risparmi il casting di perfetti sconosciuti, e il mio coinquilino mi ha chiesto (per iscritto, su facebook) di riconsiderare Francoforte, e che, nel caso avessi già deciso, gli sarei mancata.

Come quando venerdì sono andata a ritirare il certificato del corso che tanto mi ha fatto penare nelle ultime quattro settimane, e ho celebrato l’averlo passato con un caffè e un muffin al bar che mi ha rifornito di massicce dosi di caffeina per tutto il mese, sponsorizzando così le mie imprese accademiche. Il barista ha trasformato il più economico dei caffè in un cappuccino senza trasformarne il prezzo. E mi ha pure messo due timbri sulla tessera fedeltà. Alla faccia tua, Starbucks!

Come quando ieri sera (o era stamattina?) sulla strada di casa con tre amici alla spasmodica ricerca di un “felafel della buonanotte”, siamo incappati in un gruppo di spagnoli bloccati su un’isola spartitraffico come su una zattera in mezzo al mare tempesta. È bastato dargli il nome di un club ancora aperto, indicazioni su come raggiungerlo e un po’ d’erba da fumare nel tragitto, per capire come deve sentirsi Babbo Natale la mattina del 25.

Vivo nel favoloso mondo di Amélie, o almeno in un remake in salsa krautrock. Speriamo non sia un porno.

Ho deciso di lasciare Francoforte. E la città sembra intenzionata a farmene pentire.

Questo angolo di mondo, che per tanti è solo ‘banche, fiera e aeroporto’, è un posto dove sono stata felice.

La prima volta che ci ho messo piede ero venuta a trovare il mio ragazzo. Faceva un freddo che ti mangiava la faccia, ai mercatini di Natale. Da allora sono passati 3 anni, e molte cose sono cambiate: quello che era esotico e pittoresco ora è casa, una città che sembrava inospitale è diventato il posto dove vivono i miei amici e la persona che avrei continuato a seguire in capo al mondo ha deciso di proseguire il viaggio da solo.

Tornerò a casa. Il sole sta scomparendo dietro ai grattacieli e l’album dei Fleet Foxes che ho nelle orecchie è sull’ultima traccia.

Non c’è momento migliore che una dolce sera d’autunno per dirsi addio.

Wednesday 5 October 2011

Cosmopolitans


Eccomi, a 29 anni suonati, di ritorno dall’ennesimo primo giorno di scuola. Ho lo zainetto, giuro. Faccio ricreazione. E ho dei compagni di classe. Che sono solo quattro, ma anche a selezionarli attraverso un casting non sarebbero saltati fuori così. Così disfunzionali. Come me, d’altronde.

E lo so che non è professionale, ma penso che qui ed ora, per fare un po’ di esercizio di scrittura, li prenderò per il culo. Solo un po’. Poi magari, quando col passare dei giorni li conoscerò meglio, potrò sputtanarli a dovere.
E sono sicura che, nonostante ciò, mi ci affezionerò pure…


Mi affezionerò a Jon, militante cristiano che condivide con la sua città natale, Orlando - ma per quelli che non ci sono nati, le quattro case costruite ai confini di Disney world - lo stesso inquietante aspetto di perdita di innocenza.

Come Neverland, dove quel mattacchione di Michael Jackson giocava a fare Peter Pan, con tanto di pigiama party organizzati per i bambini sperduti.

Sposato con una perfetta tedesca bionda, con cui ha messo al mondo una perfetta bambina bionda, battezzata col nome di Joy, Jon ha un aspetto talmente innocuo che mi viene naturale stargli alla larga.
È la quintessenza della solidarietà. E tutto questo amore ingiustificato verso il prossimo desta sempre sospetti.

Film preferito di Jon? Non Jesus Christ Superstar, pellicola fricchettona dalle sfumature homo, bensì il machissimo il Padrino. Non fa una piega.


Mi affezionerò a Sandra, una nerd assoluta, che da sempre non tocca un goccio d’alcool, non perde un capitolo di una saga e non manca una convention di Star Wars, dove si presenta nell’impeccabile tenuta da Jedi. Davvero. Fa fede la foto del profilo di facebook.


Mi affezionerò a Stefanie, tedesca e segretaria (lampanti entrambe le caratteristiche), che sta per trasferirsi nella nuova casetta con il suo ragazzo e ha scelto di fare questo corso per cercare lavoro nella stessa fabbrichetta del suo ragazzo. Ragazzo che a dopo cena deve sorbirsi le prove generali della lezione che verrà somministrata il giorno seguente alle cavie che ci sono state assegnate.

Ho già detto che Stefanie è fidanzata? Felicemente, a quanto pare…


E forse mi affezionerò anche a Elaine, la cheerleader. Una che alla domanda “da dove vieni?” risponde “da tanti posti…" (i puntini di sospensione si sentono, eccome).

Cosmopolitan, come il cocktail preferito dalle carampane di Sex and the City, di mamma tedesca e papà portoricano, cresciuta tra la Germania e Virginia e da un paio d’anni trasferitasi a Amsterdam.

Cittadina del mondo auto-dichiarata, ha confessato di non essere mai stata a Londra perché non le interessa visitare paesi in cui, una volta atterrata e messo piede sulle scaletta dell’aereo, non venga investita da una folata di “cultural clash”.

Americana di formazione, ha passato i 20 minuti di lezione a sua disposizione a dispensare "good job!!!" (i punti esclamativi si sentono, eccome) agli studenti, con la stessa intonazione che si usa con il cane di casa quando si arrende a fare pipì sul giornale appositamente dispiegato in un angolo.

Ah, e dice "that's so cute" almeno un paio di volte al minuto.
Se vogliamo fare i pignoli, dice “owwww, that’s SO cute”, accompagnato da un broncio sbarazzino.
E ovviamente lo dice senza cognizione di causa, probabilmente in preda a ipnosi indotta dalla sua stessa voce.

Curioso, carina non è assolutamente l’aggettivo che userei per descrivere lei.

Verrà mai il giorno in cui smetterà di sbatterci in faccia il suo splendente, perfetto sorriso? O la sua è davvero una paresi facciale?


Dalle aule della scuola dove si impara a insegnare, per ora è tutto, ma spero di potervi offrire presto dei succosi aggiornamenti. Anzi, prometto di farlo se, a forza di vocine e mossette, non trasformano anche me in un Teletubby.

Monday 5 September 2011

Taxi driver


Che poi secondo me i tassisti, ammesso che non siano già folli quando scelgono di guadagnarsi da vivere stando seduti otto ore al giorno in mezzo al traffico, a fare 'sto lavoro matti lo diventano davvero.

Non tutti si trasformano in ex marine assetati di violenza come Robert De Niro in Taxi Driver - You talkin' to me? You talkin' to me? - ma sì, insomma, poco ci manca.

Non è che ce l’ho con la categoria sindacale: quello che scrivo è il risultato di una ricerca sul campo in cui la cavia ero io, e non un topone a pelo lungo al sicuro nel suo bel laboratorio.

Premessa: prendo il taxi controvoglia e solo quando sono obbligata (gli scatti del tassametro, per me che uscire a cena significa concedersi un kebab al chiosco qua sotto, mi fanno venire la tachicardia), per cui i soggetti sotto osservazione sono i tassisti che fanno il turno di notte, quelli pericolosi per davvero.

Ed è vero che il taxi non lo prendo spesso, ma ogni volta che faccio conoscenza con il tassista mi viene l’istinto di aprire la portiera e lanciarmi dall’auto in corsa, tanto il terrore di essere capitata tra le grinfie di un serial killer.

Ho incontrato l’esemplare che vuol fare lo splendido: appena sono salita e gli ho chiesto, in tedesco, di portarmi in stazione, e lui mi fa “francese?”.
Lusingata, ma anche no. Dovresti sentire come pronuncio “baguette”.

Dopo uno scambio di battute finalizzato a rompere l’imbarazzato silenzio dell’abitacolo – da dove vengo io, da dove vieni tu, perché a Francoforte… - al terzo semaforo l’intraprendente mi aveva già chiesto il numero di telefono.
Lusingata, ma anche no. Nonostante l’abbia intuito anch’io che siamo fatto l’uno per l’altra.

Ma l'esperienza irripetibile l'ho vissuta con il melomane alla guida: questo non aveva nessuna intenzione di fare conversazione; appena assimilato l’indirizzo, ha acceso la radio, a un volume decisamente superiore al sottofondo.

Musica classica. Mozart. Il Requiem di Mozart: quello che tuona “Dies irae, dies illa solvet saeclum in favilla, teste David cum Sybilla”. E devo dire che, alle 3 e mezza del mattino, ascoltarlo mentre si guarda scorrere una città addormentata fuori dai finestrini abbassati per fare entrare la brezza estiva, beh, mi ha fatto un certo effetto.
Ero talmente stordita dall’atmosfera surreale che non mi sono ritrovata a fare l’inevitabile accostamento con l’ossessione di Alex di Arancia Meccanica per Beethoven.

Finché, a un semaforo rosso, l’incantesimo si rompe: ci si affianca un altro taxi, anche questo con i finestrini abbassati e con la musica a esclusivo appannaggio dell’autista che, mentre va a caccia di clienti, si lascia pettinare dai bassi di un pezzo Reggaeton.

Il mio tassista non può nascondere il fastidio provocato dalla palese ignoranza musicale del collega: scuote la testa e aziona l’alzacristalli, come a voler preservare l’onore di Wolfgang Amadeus.

Un uomo che non si vuole arrendere al declino della civiltà occidentale non può che ispirarmi simpatia. E quando arriviamo a destinazione gli vorrei lasciare, oltre ai 10 euro (per 3 chilometri, ma siamo impazziti?) un trolley pieno di solidarietà.

A quanto pare anche i tassisti, oltre all’ulcera, hanno un cuore.

Sunday 24 July 2011

My Sharona


Ci sono persone che hanno la capacità di farmi sentire inadeguata. Costantemente inadueguata.
Persone al cui cospetto l'istinto mi ordina di stendermi a terra, prona, a pelle di leopardo, e da quella scomoda posizione implorarle con occhio remissivo che mi calpestino.

Queste persone hanno un ascendente talmente forte su di me che arrivo a giustificarle in qualsiasi situazione, anche quando, piú o meno inconsapevolmente, mi fanno del male.

Una di queste persone si chiama Sharona, newyorkese di nascita ma trasferitasi a Francoforte dopo il matrimonio e madre di tre bambini a cui ho fatto da babysitter per tre mesi al mio arrivo in Germania.

Sharona é viziata a priori, ma non ha gli strumenti per rendersene conto: ai suoi occhi il suo atteggiamento capriccioso non é sintomo di egoismo perchè nel piccolo mondo dorato su cui regna incontrastata tutte le persone che incontra nel corso della giornata respirano essenzialmente per soddisfare ogni suo desiderio.

L'universo é sharonacentrico. É sempre stato così, quello spostato di Galileo aveva torto marcio.

Questa persona mi ha accompagnata per mano sull'orlo dell'esaurimento nervoso: in seguito a un mio celebre abbandono di campo, quando le ho consegnato la scarpa che non ero riuscita a infilare sul piede della figlia, nascostasi sotto il divano dopo un inseguimento durato una ventina di minuti, sono stata definita di psiche fragile, incline agli scatti d'ira e in ultima analisi pericolosamente violenta. Ovvio che non mi ha fatto piacere sentirmelo dire, ma dal momento che la diagnosi arrivava da lei, la mia nemesi, invece che pensare che avesse preso un abbaglio da manuale, in quel momento mi sono sentita davvero psicolabile, incline agli scatti d'ira e, in prospettiva, violenta.

Quante volte avrei voluto andarmene sbattendo la porta, lasciando lei alle prese con il Play-doh prima masticato poi calpestato sul tappeto bianco, ma non ci sono mai riuscita. Tutta colpa del mio spirito da crocerossina che mi ha fatto inghiottire un sacco di bile.
Volevo solo rendermi utile, anelavo a un "grazie" che veniva pronunciato solo in occasione di catastrofi evitate all'ultimo secondo.

Non so cosa mi aspettassi: in fondo, quanto spesso il capo ringrazia uno dei suoi impiegati? E Sharona era il mio capo: mi pagava 270 euro al mese per 6 ore di lavoro al giorno, 6 giorni la settimana. E pensava di farmi un favore, anzi, di regalarmi un sogno.

Perchè Sharona non sa quanto costa l'affitto di un appartamento nel mondo reale, non sa che non tutti sono nati in famiglie che commerciano in diamanti, dove i soldi sono solo un optional, dato che tutto ciò che rientra nella categoria necessario (casa, cibo, vestiti, riscaldamento) é di serie.

Quando sono stata messa per l'ennesima volta di fronte alla mia inettitudine, ho convocato lei e il marito e ho rassegnato le mie dimissioni. Loro hanno ascoltato composti e sono riusciti ancora una volta a spiazzarmi quando, trattenendo le risate, mi hanno detto "ma Claudia, noi non ci aspettiamo cosí tanto da te...", come se avessi peccato di presunzione a sentirmi all'altezza di badare ai loro figli.
Un coppino morale di queste proporzioni é riuscito a aprirmi gli occhi sull'intera faccenda e sulla sua insensatezza. Non ho ritirato le dimissioni, e due settimane più tardi ero di nuovo una persona libera.

Ogni tanto vado ancora a fare un po' di ore come babysitter, perchè sento la mancanza dei tre mostriciattoli. Naturalmente, quando posso presentarmi al suo cospetto lo decide lei. Settimana scorsa la richiamo, dopo aver ascoltato un messaggio che mi aveva lasciato in segreteria, a metà fra lo scocciato e il disperato: le spiego che il week-end non sarò a Francoforte ma a Amsterdam per un addio al nubilato, e che di conseguenza non potrò darle una mano; aggiungo che sono parecchio impegnata al momento e mentre la aggiorno sui miei progetti lei mi interrompe:

"Allora sabato non puoi?"
"No, mi spiace, sono via ma..."
"Non devi giustificarti con me, e ora scusa che ho un ospite e lo sto facendo apettare
"..."

"I am sorry" sussurro nella cornetta dopo che lei mi ha appeso in faccia e mi accorgo di essere stesa a terra, prona, a pelle di leopardo.

A quanto pare non sono poi così libera.

Sunday 3 July 2011

Little Italy


All’ora di punta, lo chef esce dalla cucina per due ragioni: quando deve farsi bello con clienti di riguardo, o quando s’incazza. Io l’ho visto precipitarsi in sala e rivolgendosi alla moglie sbottare: “Ti ho detto di non prendere più ordinazioni per il menu tre, Il pesce l’abbiamo finito! Che ci devo mettere nei piatti, il cazzo mio?” e, senza attendere risposta, tornare ai fornelli.

Sto facendo un po’ di ore in un ristorante italiano, con 10 anni di ritardo sui miei coetanei che passavano le estati come camerieri a Londra, ma spinta dalla stessa motivazione: imparare la lingua.

Ho puntato su un ristorante italiano e mi sono trovata a districarmi fra pugliese -mi esci un paio di sedie dal retro?-, e tedesco, per comunicare con il piastrellista rumeno riconvertito a barista e soprattutto con i clienti.

Quando non capisco, invece di un semplice “wie, bitte?”, che corrisponde al nostro “come, scusi?” io dico testualmente “non ho capito” come ad ammettere candidamente che, oltre a pronuncia e vocabolario, deficito anche di comprendonio.

Ma prima ancora della lingua, sono altri aspetti che abbassano drasticamente le mie probabilità di diventare una brava cameriera… È un miracolo se ogni volta che sparecchio non infilzo un cliente con posate che scivolano dai piatti, o se con il guazzetto dei frutti di mare non gli faccio la doccia.

Sono maldestra o, come mi chiama affettuosamente il mio ragazzo, sono Edward Scheissehand.

Per i clienti più affezionati probabilmente sono “quella analfabeta che prende a gomitate le bottiglie”.

Ciononostante, dopo il periodo di prova non sono stata invitata a sparire dalla circolazione -“se sei andata bene tu, che problemi hanno tutti gli altri?” chiosa il poeta che mi ha definito manidimerda- e in segno di fiducia mi è stato chiesto di lavorare di sabato sera.

Il sabato sera il ristorante viene trasformato in un karaoke: al microfono membri della comunità italiana di Francoforte, impegnati in struggenti interpretazioni di brani di artisti che tengono alta la bandiera del nazionalpopolare; appollaiati sugli sgabelli del bar, i figli adolescenti che brillano per cattivo gusto: tra Nike luccicanti, colletti alzati e cappellini con visiere orientate come parabole, riescono a essere fuori moda anche a confronto di tamarri stagionati.

L’organizzatrice dell’evento, impossibilitata a servire ai tavoli in tutto lo splendore di permanente fresca, french manicure e tacco dodici, senza attendere la benedizione del proprietario mi carica di vassoi con l’ordine di dispensare prosecco gratis a tutti i presenti.

Il sabato sera qui è volgare come il ferragosto al Billionaire.

Mi sono tornati alla mente quei matrimoni di cugini lontani a cui sono stata da bambina, quando dopo caffè e ammazzacaffè il tastierista si mette a cantare i soliti dieci pezzi –i Nomadi sempre a dominare la playlist- finché zie ubriache scendono in pista e ballano scalze “Maracaibo”.

Ma mi sono ricordata anche della messa di Pasqua dell’anno scorso, cui ho partecipato per maturare punti paradiso: varcata la soglia della chiesa italiana di Francoforte sono stata assalita da un déjà vu causato probabilmente dal fatto che i fedeli ricordavano incredibilmente gli invitati al matrimonio della figlia di don Vito Corleone.

Tutto questo è "troppo italiano", per dirla alla Stanis LaRochelle.

Come quando a New York finisci per caso a Mulberry street, cuore di Little Italy, e ti viene un po’ di magone perché è anche grazie a certi stereotipi che siamo diventati una barzelletta…

O come quando al corso di tedesco una mia collega greca ha fatto una dichiarazione d’amore verso l’Italia e la nostra insegnante le ha chiesto se amasse pure Berlusconi…

Non sono una grande fan dell’italianità esibita come il Rolex, ma amo il mio paese, e vorrei solo trovarmi nella situazione di non doverlo continuamente giustificare.

Friday 10 June 2011

Ich liebe meine Mutti


Oggi è il compleanno di mia mamma. Mia mamma si chiama Maria, detta LaMery, con tanto di articolo perché, come dicono a Roma “è un taijo!”, e si merita un nomignolo.

È l’ennesimo compleanno che ci vede separate, e non è un dramma, dato che in realtà non l’abbiamo mai festeggiato come vuole la tradizione, con la torta, i fiori, il regalo… Non è che sono una stronza insensibile: semplicemente è così che vanno le cose quando cresci in una famiglia che non ha mai dato grossa importanza alle ricorrenze.

Per esempio, quando io e mia sorella, verso la fine delle elementari, siamo state messe davanti alla dura realtà e alla conseguente inverosimiglianza di una santa che passasse a portare i doni a noi e a tutti i bambini di Brescia, Bergamo e Verona nella notte tra il 12 e il 13 dicembre, abbiamo automaticamente smesso di ricevere regali, almeno in forma tradizionale.

Abbiamo provato a protestare, adducendo come prova schiacciante l’esempio dei nostri compagni di classe che venivano ricompensati ogni volta che a scuola prendevano un bel voto o quando a cena mangiavano le verdure senza farsi implorare.

Ma nulla da fare, LaMery non ha mai fatto una piega:

“Per il compleanno vi ho pagato il corso di nuoto”
“Il compleanno di chi?”
“Il vostro”
“Ma tra il mio compleanno e quello di Luisa ci passano 6 mesi!”

“Hai preso ottimo nella verifica di scienze sociali? Brava. Ti sei proprio meritata il pacco di mutande nuove che ti ho messo nel cassetto”

“Quest’anno non chiedetemi niente che vi abbiamo messo l’apparecchio. A tutte e due”
(sai che gioia, quasi più che uscire di casa nelle gelide sere d’inverno per andare in piscina)

In realtà, anche quando ho iniziato ad avere liquidità, per quanto piccola, non ho provato a invertire la tendenza: il problema è sempre stato trovare un regalo che potesse essere apprezzato da una persona che ha lo stesso attaccamento alla sfera materiale di una suora di clausura.

Mia mamma è più da biglietto che da pacchetto, e apprezza un oggetto regalato solo sulla scala dell’utilità: nel suo microcosmo ci sono le cose che le servono e un sacco di tàter (bergamasco per cianfrusaglie) che occupano solo spazio.

Le poche volte che le ho chiesto se desiderasse qualcosa di regalo (a mia mamma è estraneo pure il concetto di sorpresa, quindi tanto vale andare sul sicuro) mi ha risposto: “il regalo più grande che puoi farmi è essere felice. E fare la brava”.
Non so se le due cose vanno a braccetto, ma ogni giorno cerco di tener fede a questo proposito. E spesso ce la faccio senza impegnarmi nemmeno tanto.
Bastava dirlo, mamma!

Comunque oggi le ho telefonato per farle gli auguri e lei non ha perso occasione per ricordarmi che alla mia età lei era già sposata da un paio di mesi e stava per mettermi in cantiere. Poi, con nonchalance mi ha chiesto se avessi deciso cosa fare nella vita. Così, come se mi stesse chiedendo cosa avessi mangiato la sera prima.
Me lo chiede sempre, e penso che quando avrò un qualsiasi tipo di risposta pronta la terrò per me per evitare di sentire un tonfo dall’altra parte del filo.

Rispondo “macché”, per risparmiarle un principio d’infarto, e penso alla pazienza infinita e all’amore incondizionato che mi dimostra ogni giorno che passa.
Perché dire: “non so dove sarei, se non fosse per mia mamma” non è retorica, è la consapevolezza che se non fosse per lei, io non sarei nemmeno qui a tesserne le lodi; è lei che mi ha messa al mondo, mi ha cresciuta e da quando ho dimostrato un livello sufficiente di indipendenza mi ha sempre lasciata libera di fare tutto quello che mi passava per la testa, senza darmi consigli non richiesti, senza cercare di farmi rinsavire e senza giudicarmi. Mai.
E con mai intendo fin dall’inizio, non solo da quando ha capito che ormai farmi ragionare era partita persa.

Mia mamma è come il suggeritore a teatro: se ne sta nella buca, quasi impaurita a salire sul palco della mia vita, ma è solo grazie alle sue imbeccate che io ho il coraggio di recitarla, questa commedia.

Mia mamma è Mickey quando io voglio fare Rocky: mi tampona le ferite quando torno all’angolo ridotta a una zampogna, e ogni volta che serve mi fa un’iniezione di autostima. Se me lo dice lei, mi convinco di potercela fare. In ogni situazione. Con lei intorno al ring posso stendere tutti gli Ivan Drago che vogliono spiezzarmi in due.

Chissà cosa pensava LaMery mentre mi vedeva crescere… Non so se avesse piani su di me, ma si sarà sicuramente chiesta se i tratti del mio carattere che si andavano definendo rivelavano quello che avrei potuto fare o diventare da grande.
E poi come me, si è lasciata sedurre dall’effetto sorpresa provocato dai repentini cambi di rotta che brucianti passioni quasi quotidiane hanno sempre imposto sulla mia vita.
Magari lo sa, quello che avrei potuto, o dovuto fare. Ma non me l’ha mai suggerito. E io continuo a fare quello che avrei voluto fare.

Non so se avrò mai successo nella vita, e non il successo come si è finiti a definirlo, tutto fama e soldi, ma se mai riuscirò a realizzare uno dei miei sogni, dedicherò tutta l’euforia alla persona che me l’ha permesso.

Non sarà scenografico come ricevere un Oscar, scoppiare in lacrime sugli scrosci degli applausi, raggiungere il microfono tirandosi dietro metri di seta trasformati in un Valentino vintage, e iniziare il discorso con “I would like to thank my mum…”, ma penso che LaMery lo apprezzerà comunque.

Monday 21 March 2011

Zed’s dead, Baby


Attenzione: ogni riferimento a fatti e persone è espressamente voluto. Anche perché nessuno degli interessati capiterà mai su questa pagina e che ho il culo parato lo confermano le statistiche (il mio blog ha totalizzato in un anno e mezzo 77 visite, di cui 50 refresh miei. Il blog che state leggendo, o prescelti, è talmente esclusivo che l’ho dovuto mettere tra i segnalibri. E io qui ci scrivo).

Spoiler alert: riparlerò dei miei coinquilini, inesauribile fonte di ispirazione e presenza costante nella mia quotidianità. Soprattutto in questi giorni, che ci vedono tutti e tre disoccupati, a sciabattare nel salotto di questo appartamento che sembra improvvisamente più piccolo dei suoi 110 metri quadri.

Ho le carte del divorzio già compilate. Anelo alla vita dell’eremita.

L’altra mattina mi sono svegliata prestissimo per gli standard di questi tempi di cazzeggio creativo. Ho fatto colazione, ho cercato di darmi un tono fermando lo zapping selvaggio sulla BBC e poi mi sono messa al computer, intenzionata a comporre le più spettacolari lettere che abbiano mai accompagnato un curriculum. Tempo 10 minuti e l’illusione della mistica torre d’avorio si schianta contro la detonazione contemporanea di TV e Playstation.

Non ero più sola: senza averne fatto espressamente richiesta, mi sono ritrovata ad Arkham con Batman e un francese in mutande. Che non erano interessati alle mie offerte di collaborazione.

Una sera rientro dal cinema e sulla via della mia stanza incontro Bruce Willis che dal tubo catodico sentenzia “It’s not a motocicle, it’s a chopper baby”; sorrido al buon Bruce, contenta di averlo intercettato in tempo: una battuta che ha fatto la storia del cinema sarebbe stata sprecata davanti a un pubblico composto da due bicchieri di vino, due resti di take away freddi nelle loro vaschette di polistirolo e un divano parecchio stropicciato.

L’ispettore Derrick che è in me, compiaciuto di aver trovato il movente e i colpevoli con un semplice sguardo alla scena del crimine, non la contamina spegnendo la TV ma si stringe nel suo impermeabile e esce dall’inquadratura chiudendosi la porta alle spalle, senza smettere di fischittare il motivetto della sigla.

Grazie Tarantino, per averci regalato un film che per la nostra generazione sarà sempre il semaforo verde per la pomiciata.

Thursday 3 March 2011

L'esercito del surf


Il mio coinquilino soffre di letargismo finesettimanale: la routine solidificata in anni di ozio gli impone di togliere le scarpe al venerdì al ritorno dall’ufficio e di non lasciare la sua stanza fino al lunedì mattina, salvo puntate sporadiche al bagno e in cucina, in risposta al richiamo della natura.
62 ore in 17 metri quadri. Devo controllare, ma per me poco ci manca al Guinness record.

Potete immaginare la sorpresa quando un lunedì mattina apro la mail e scopro che proprio il mio coinquilino, con netto anticipo sul weekend, propone a tutto l’ufficio una festa il venerdì sera. Pubblicizzato come uno skater party,è organizzato da un negozio di streetwear gestito da un amico e il DJ set è ispirato alle musiche che accompagnano i video di skate, snowboard, bmx e altri passatempi squisitamente street.

Si può fare. In fondo, nei gloriosi primi anni ’90 ero una skater anch’io, e facevo avanti e indietro nel vialetto di casa su una tavola customizzata con l’artwork delle Tartarughe Ninja che mi aveva portato Santa Lucia su specifica richiesta.

E così arriva venerdì, e ci diamo appuntamento con gli altri curiosi a casa dove, per entrare nel mood della serata, il nostro resident skater (sempre il mio coinquilino) accende la TV e ci mostra un DVD con gente con i capelli controvento che esegue flip, grab e trick a favore di una lente fish-eye, il tutto impastato di colori fluo e montato in sincope da epilessia su musica punkrockeggiante. Vengo investita dal peso dei miei 28 anni. Sono troppo vecchia per tutto questo, ma se mi tiro indietro ora se ne accorgerebbero anche gli altri. Si può ancora fare.

Quando passa l’orario in cui si rischia di essere i primi a entrare nel locale, usciamo di casa. Perché stiamo andando a uno skater party, e essere cool non è un opzione, ma un comandamento.

Ci accorgiamo di essere arrivati quando il nostro contatto interno comincia a dispensare coreografate strette di mano a un branco di gente frangettata, dimenticandosi di presentarci. Nessuno di noi indossa un berretto e questo ci garantisce invisibilità.

Varchiamo la soglia del bar e anche se abbiamo cercato di evitarlo, siamo i primi. Siamo proprio gli unici avventori, e il busto di Elvis in camicia hawaiana ci regala un sorriso di incoraggiamento, mentre ci avviciniamo al bancone, sovrastato da un barista che sembra un extra di Prison Break.

Lancio uno sguardo intorno: non c’è nemmeno il DJ.

Completiamo il primo giro di birre e restiamo in attesa di istruzioni. Ci raggiunge quello che ci ha trascinato fino a lì e ci fa “beh, qua la festa non c’è, pensavo di andare a ballare” e senza chiederci se era passato per la mente anche a noi, esce dal bar. Per non rientrarci mai più. Come PR non hai futuro, lasciatelo dire.

Sedotti e abbandonati, e ancora soli al bancone, siamo pronti a affogare i dispiaceri nell’alcool. Ma anche il barista, nel frattempo è scomparso. Riappare dopo 20 minuti di pausa sigaretta, ci guarda senza nascondere fastidio, e prima di servirci raccoglie le bottiglie rimaste sui tavoli, insulta un ragazzino che gli è saltato su un piede mentre provava a aprire le danze e riaccende la candela votiva davanti al busto di Elvis. Solo allora, ricordandosi di non sorridere, ci dispensa il secondo giro.

Lancio un altro sguardo intorno: ci sono due scappati dalla seconda media e un tizio visibilmente ubriaco che viene verso di noi. Io a quel punto sono visibilmente annoiata, e approfitto della situazione per testare il mio tedesco.
Già partivamo svantaggiati, lui sbronzo e io analfabeta, ma non avrei mai immaginato le punte di surrealismo toccate da quella conversazione:

“Claudia. Cla-u-di-a. Dall’Italia”
“E cosa fai qui?”
“Ci vivo”
“Ah. E cosa fai?”
“Ah… scusa! Sono una videogame tester”
“Ah… E di lavoro cosa fai?”
“…”
“…”
“E tu cosa fai?”
“Il piastrellista”
“Ho capito: pavimenti?”
“Non solo, anche pareti”
“Certo!giusto…”
“…”
“…”
“Quanti anni hai?”
“Quanti me ne dai?”
“36”
“?” Rumore di mascella dislocata, bocca spalancata per la sorpresa.
“Beh, io ne ho 34” E questa dovrebbe bastarmi come spiegazione.
“Certo!giusto…”

“Senti, è stato davvero un piacere fare quattro chiacchiere, ma devo davvero andare a casa a pettinare le bambole adesso”: questo avrei voluto dirgli ma tra l’orgoglio ferito e il deficit della lingua mi sono invece alzata dallo sgabello, gli ho agitato una mano davanti alla faccia e ho urlato un inequivocabile “Tschüs”.

Così finisce, ingloriosamente, il mio ennesimo tentativo di sentirmi giovane mimetizzandomi fra i giovani.
Conoscete qualcuno che può mettermi in lista per la bocciofila? Free Chinotto a chi mi accompagna!

Sunday 13 February 2011

Burn your bra!


Un amico appassionato d’arte cerava di descrivermi in che modo si fosse sentito offeso dalla violenza con cui era stato accolto dalle opere messe in mostra da un collettivo di artiste femministe.

“Mi hanno fatto vergognare di essere uomo. Mi hanno farcito di sensi di colpa. E a me non sembra di aver mai trattato una donna a pesci in faccia, casomai il contrario”.

Voleva sapere se anch’io, che vengo da Venere come le autrici di queste opere fortemente provocatorie , mi fossi mai sentita in qualche modo discriminata in quanto donna che lotta per la sopravvivenza in una società tipicamente maschilista.

Ci ho pensato, mentre passavo il gessetto sulla punta della stecca. Ho temporeggiato per far salire la suspense mentre rompevo le biglie e solo dopo essermi scusata per aver mandato la nera in buca per prima, ho smesso di atteggiarmi e ho risposto: “No, perché?”.

Forse non sono la persona giusta a cui chiederlo: la divisione maschi e femmine è qualcosa che per me risale alle elementari, quando mi sono accorta di avere un debole per il rosa e nessuna inclinazione a prendere a calci un pallone. Preistoria. Negli ultimi 20 anni non ho cambiato idea sul calcio, ma il rosa è sparito dal mio guardaroba, così come la lotta aperta ai maschi dalla mia agenda.

Ho frequentato le stesse scuole e fatto gli stessi lavori dei miei colleghi, meritandomi gli stessi voti e lo stesso stipendio. Mi è capitato spesso –e l’ho sempre considerato un privilegio- di passare serate senza rappresentanti del gentil sesso a farmi da spalla. E nessuno mi ha mai offerto da bere solo perché ero l’unica donna al tavolo.

Se non è emancipazione questa, su cosa berciano ancora le femministe? Se la galanteria puzza di vecchio e l’uomo non ti apre più la portiera della macchina, è in parte colpa loro. Il percorso partito dal diritto al voto e approdato all’aborto, passando dalla pillola al divorzio, ha raggiunto il traguardo.

Che si preoccupino di quelle donne costrette a camminare tre passi dietro al proprio uomo, mute e silenziose, nascoste da un telo nero come qualcosa da tener nascosto perché motivo di vergogna e non, come dovrebbe essere, per garantire protezione. Loro non possono bruciare reggiseni e reclamare a gran voce l’emancipazione, se non vogliono finire lapidate.

Non ho mai intimidito gli uomini facendo leva sulla mia femminilità, non la ritengo una strategia vincente. Penso sia il lavoro di squadra quello che porta i risultati migliori, e non mi piace scendere a compromessi.

È solo quando smetti di comportarti come se ce l’avessi solo tu,che l’uomo smette di considerarti semplicemente scopabile su una scala da “manco se ne dipendesse il futuro dell’umanità” a “anche se succedesse fra 50 anni”. “Oltre alle gambe c’è di più”, insegna Sabrina Salerno. Pari opportunità garantite.

Quando mi sono cresciute le tette, i miei compagni di classe non hanno fatto una piega; non hanno cominciato a guardarmi in modo diverso, probabilmente perché ho scelto di non sbattergli le suddette in faccia per fargliele notare.
Già allora ne sottovalutavo il potenziale.

Prendete l’”Effetto Lolita”: tutti abbiamo avuto una compagna che appoggiava i gomiti sulla cattedra e le tette sul registro per discutere con il professore di un voto a suo avviso ingiustificatamente basso. Bastava farla annusare, valeva la pena provarci, e funzionava 7 volte su 10. Quella ragazzetta aveva già capito tutto. Chapeu. E questa tecnica, affinata e perfezionata può portare alla promozione anche in campo professionale.

Se sei donna, hai un corpo con tutti gli attributi al posto giusto, una soglia di imbarazzo elevata e un concetto vago di dignità, puoi tenere il cervello in formalina sul comodino e aprirti un sacco di porte con quello che ha in mezzo alle gambe.
Se non è emancipazione questa, fare leva sulla debolezza degli uomini per ottenere tutto e subito… il bunga bunga è un buon esempio: gli unici ingredienti sono donne arriviste, spietate e uomini incredibilmente stupidi, annebbiati dal testosterone. Una ricetta semplice.

Personalmente non mi sento chiamata in causa quando si parla dello sfruttamento del corpo femminile. Lo sfruttamento, in questo caso e in tv, è su base volontaria: nessuno ha obbligato queste giovani donne a fare qualsiasi cosa abbiano o non abbiano fatto ai nostri politici in camera da letto. E se non fosse stato per queste strappone capricciose che non hanno ottenuto quello che gli era stato promesso, non saremmo mai venuti a conoscenza delle preferenze sessuali di anziani dipendenti da Viagra. Peccato, eh?

L’unica cosa che mi accomuna a questo manipolo di arriviste sono i cromosomi.

Leggere che il nostro presidente del consiglio paga delle donne per fare sesso è stato sconvolgente come leggere che sempre il nostro presidente è un narciso con manie di grandezza. Non l’avrei mai detto. Suggerisco meno spionaggio stile Wikileaks e più buonsenso, se vogliamo davvero fare chiarezza in questo troiaio.

Sunday 6 February 2011

Astronauti e ballerine


Non so più cosa rispondere al qualcuno che mi chiede come sto.

Se quel qualcuno affittasse la mia vita e vi ci trasferisse per un paio di giorni si chiederebbe come faccio a mantenere un aplomb squisitamente british e a essere piú preoccupata di organizzarmi il weekend che il futuro.

Se quel qualcuno si lasciasse facilmente prendere dallo sconforto si butterebbe da un ponte ancora prima di chiederselo.

Eh, cosa sarà mai... Volete un prospetto più accurato della situazione? Accontentati.
Sul piano professionale sto per perdere il mio terzo lavoro in tre anni - e non per demeriti miei, ci tengo a precisare -, la mia vita sentimentale è spensierata come pezzo dei Joy Division, vivo in un paese in cui il cielo é grigio 50 settimane su 52 e la gente parla una lingua oscura, arcaica e inaccessibile, nonostante gli sforzi.
Beh, almeno c'e la salute.

Le congiunzioni astrali sfavorevoli stanno trasformando un’ottimista patologica in una cinica cronica. Peccato.

Quando ero a casa per Natale, la mutti, dopo aver ripetutamente sottolineato che “a stare troppo al computer si diventa scemi” mi si è seduta di fianco, ha aspettato che spostassi lo sguardo dallo schermo a lei e guardandomi dritto negli occhi come a perlustrarmi l’anima mi ha chiesto “ma tu, in fondo, cos'é che vuoi fare?” Sapevo che quella del videogame tester non se l’era bevuta, non sono riuscita a convincere nemmeno la sottoscritta...

Non so che lavoro voglio: mi appassiono a tante, troppe cose, ma non riesco a appassionarmi al lavoro in sé. Forse perché non mi è mai stata offerta la possibilità di mettermi in gioco, di scoprire se c'é qualcosa che so fare bene, meglio di qualcun altro. Sono stufa di eseguire istruzioni.

Voglio continuare a buttarmi in esperienze sempre nuove e a prima vista slegate tra loro, ma più il tempo passa, più la lista si accorcia. Il treno degli astronauti e delle ballerine l’ho perso da un pezzo.

E ne sono passati di anni da quando, fresca di laurea, immaginavo il lavoro dei miei sogni. Volevo un lavoro creativo, perché suonava bene, profumava di brunch, casual Fridays, brainstorming e libertà. Peccato i vent’anni di ritardo sull’epoca d’oro dei copywriter, il tracollo economico su scala mondiale, il global warming e i tonni sterminati per rifornire di tekkamaki i nastri trasportatori del running sushi.

E se il battito d’ali di una farfalla è in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo, non vedo perché io non possa incolpare il buco dell’ozono delle mie alterne fortune in campo lavorativo.

Riconosco di non avere un particolare talento, e meno male, altrimenti mi starei mangiando le mani per non averlo sviluppato finora. Ma ho delle qualità: sono curiosa, sono sveglia e sono socialmente compatibile alla maggioranza dato che mi faccio i fatti miei, saluto con il sorriso, cerco di limitare le critiche e quando finisce il caffè ne faccio di fresco.

Non so che lavoro mi inventerò questa volta, ma sto cercando un’esperienza che mi permetta di raccontare storie. Storie diverse, con mezzi diversi. Mezzi come la televisione, internet, i videogame, la musica, ambienti che mi sono più familiari, ma anche la moda, i viaggi, la fotografia, passioni che vorrei diventassero quotidianità.

L’unica cosa certa è che continuerò a non programmare più in là del dopodomani, perché ho capito fare piani rende le cose più facili solo al destino, indicandogli dove soffiare per buttar giù i nostri castelli di carte.

Confiderò nel mio impegno per trasformare i castelli che progetto in aria in castelli di carte. Speriamo che stavolta faccia una comparsata pure una buona dose di culo.

Sunday 30 January 2011

Balliamo un altro mese


Non ricordo a cosa stessi pensando in quel preciso momento: ipnotizzata dal rumore dell’aspirapolvere, cercavo di creare dei pattern tra le piastrelle, di costruire uno schema, eseguendo movimenti misurati e regolari.
Ero lì tutta intenta che aspiravo, assorta nella ricerca del percorso perfetto per la caccia all’ultimo capello, quando vengo bruscamente risvegliata da una mano che mi si posa sulla spalla. É la ragazza del mio coinquilino, e mi sta parlando, ma non la capisco: provo a spegnere l’aspirapolvere e lei prova a ripetere la frase, che é in tedesco, sicché non capisco comunque. Mi viene incontro il linguaggio del corpo: lei vuole restare in bagno, ma senza di me. E allora chiedo scusa, stacco l’aspirapolvere e lascio la stanza.

Solo quando lei mi chiude la porta in faccia capisco che una semplice necessità fisiologica sua ha rovinato il mio momento settimanale di meditazione.
Deve essere stata una necessità impellente, se non poteva essere supervisionata per un paio di minuti extra che mi sarebbero bastati a finire di pulire il bagno. Bagno che tu, mia cara principessa sul pisello, usi 4 giorni su 7, senza preoccuparti minimamente di pulirlo né almeno di rifornire la carta igienica che usi a metri quando ti togli la seconda faccia che ti disegni la mattina con fondotinta e mascara.
Scusa per essermi permessa di farti un favore. No, la giustifica vale solo in caso emergenza e comunque la nota te la becchi lo stesso perché in tutto questo le paroline magiche “per favore” e “grazie” io non le ho sentite.

Forse il tuo ragazzo non te l’ha spiegato, o forse non l’ha capito nemmeno lui, ma io non sono la donna delle pulizie. Se lo fossi, avrei installato i tornelli davanti alla porta del bagno, così, a 50 centesimi a pisciata, almeno mi ci pagavo il caffè.

Fammi capire... sono l’unica stronza che per paura di prendere qualche brutta malattia quando serve si infila dei guanti di gomma e da’ una pulita e voi, che vivete nello stesso appartamento, lo date per scontato, come se fosse scritto sul contratto d’affitto.

Ieri ero in giro a farmi una sportina di fatti miei quando ricevo un sms che mi ha fatto cambiare colore. Il mio coinquilino scrive:
“Hey! I just arrived and I noticed there is not toilet paper left. Will u cross a supermarket on your way?”

Fase 1: il fastidio

“Ho fatto 10 rotoli, lascio? E di fettine di culo tagliate sottili sottili, quante ne vuole?”

Fase 2: il pentimento

Perché mi viene chiesto un favore e io prima cosa divento verde come Lou Ferrigno in Hulk?
Forse perché io chiedo un favore quando ho davvero bisogno d’aiuto. E anche in questo caso, la conclamata emergenza poteva rientrare senza il mio intervento.

Quando mi scrivi: “Ehi, mi sono accorto che non abbiamo più carta igienica”, a me suona da presa per il culo. Sono 3 giorni che siamo sull’ultimo rotolo, pensavo fosse un avvertimento abbastanza chiaro. Indovina chi ha comprato l’ultima confezione? No, tu l’hai comprata a novembre. Eh sì, il tempo vola davvero…

E quando mi scrivi “Già che sei in giro, se incroci un supermercato…” io capisco, ma non é che i rotoli di carta igienica mi vengono incontro per strada e io li accompagno a casa... devo raggiungere un supermercato, perdermi fra le corsie e fare la coda in cassa. 10 minuti del mio tempo libero a coprire la tua pigrizia. Perché quello è... quando sono rientrata con l’agognato bottino ti ho trovato seduto sul tuo pesante culo, tutto intento a aggiornare il profilo di facebook mentre ti rollavi una canna. Sono sicura che se avessi finito le cartine saresti sceso di corsa a prenderle…

E lo so che te ne sei accorto che ero verde. Non posso farci niente. Dirmi “you’re awesome” non risolve la situazione. Non cerco la tua approvazione. E poi, se basta tanto poco, puoi essere awesome anche tu. Superawesome.

Per evitare di risponderti male, mi sono rifugiata in cucina, dove mi sono accorta che nonostante accurate spiegazioni e un dispiegamento di contenitori, la raccolta differenziata non ha ancora preso piede: una baguette morta di vecchiaia NON riposa in pace insieme alla carta e il posacenere NON si svuota nella plastica.

E se ti affacci alla porta e mi chiedi “Is everything all right?” come se portare giù la spazzatura fosse sintomo di disturbo mentale… allora abbiamo un po’ di lavoro da fare, io, te e quell’altro, se vogliamo continuare a sopportarci nel nostro microcosmo da 80 metri quadri.

Concludo la sbrodolata incazzosa in leggerezza, con un balletto improvvisato in corridoio, sulle note di Bugo, il casalingo per antonomasia.

dimentica le offese
spegni le luci accese
se tu paghi le spese
balliamo un altro mese


titoli di coda su musica che sfuma

e arrivederci alla prossima puntata

Sunday 16 January 2011

viva viva la movida!


Ogni tanto, durante la pausa pranzo, parte il gioco del “ce l’ho più lungo io”. Vince chi le spara più grosse, con creatività e senza ritegno. La rosa degli argomenti che bene si prestano è abbastanza limitata, ma un evergreen resta il consumo di alcool. Io solitamente non prendo parte a questi campionati della panzana (squalificato chi esordisce con “una volta, un mio amico blablabla”); alla motivazione pratica –in pausa pranzo io mangio– si accompagna quella tecnica –in quasi 30 anni di tranquilla esistenza non ho vissuto esperienze che qualcuno troverebbe interessanti sotto forma di racconto–.

L'ultima volta, proprio sullo scadere del tempo (un match di solito dura mezz’ora, in concomitanza con la pausa pranzo) uno dei partecipanti, preso da slancio agonistico, ha cominciato a rilanciare su qualsiasi storia: era in stato di grazia e nessuna situazione, nessuna gradazione, nessuna disavventura poteva paragonarsi a quello a cui lui è più volte sopravvissuto. Se qualcuno avesse tentato un colpo basso, ammettendo “una volta sono finito in coma etilico” sono sicura che non si sarebbe lasciato impressionare e avrebbe probabilmente risposto che ci era passato anche lui, solo che lui era morto.

Sabato sera vengo invitata a una festa casalinga organizzata dall’ambasciata spagnola in Francoforte. E prima ancora di arrivarci, so già come andrà a finire.
Il piano è quello di andare a ballare, perché come vuole lo stereotipo gli spagnoli devono “Irse de fiesta. Siempre” anche quando non ne hanno voglia. Il piano può essere attuato con calma, comunque. E con calma si fanno le 3 e mezza, dopo un paio di videogame zombie-oriented, cervecite come se piovessero, 5 giri di “uno shot e poi si va” e mezza dozzina di “rollo l’ultima che stiamo per uscire”.

Le 3 e mezza sono quell’orario in cui in Spagna la gente va a ballare, mentre a Francoforte, dove la movida non l’hanno ancora inventata e le attività ricreative sono su un fuso orario diverso rispetto al Mediterraneo, le 3 e mezza sono l’ora in cui i DJ sfoderano la mixtape dei pezzi svuotapista e aspettano pazienti che gli ultimi zombie –quelli veri– trovino l’uscita.

E proprio mentre sto per raccogliere le mie cose e incamminarmi in direzione letto, assisto a un’inaspettata amichevole di “ce l’ho più lungo io” tra il padrone di casa e quel mio collega di cui ho tessuto le lodi poc’anzi. Oggetto del contendere, gli stupefacenti, e se avete capito le regole del gioco, potete immaginare come i 2 sostenessero di aver fumato, sniffato, ingerito e iniettatosi qualsiasi eccitante, allucinogeno, o sostanza psicoattiva di origine naturale, chimica o extraterrestre.

Conclusasi in parità questa disputa di riscaldamento, la sfida diventa determinare chi fra i due sia il clubber più assiduo. L’iPad viene preso d’assalto e mentre YouTube regala perle di technopop anni ’90, complice anche l’applicazione strobo per iPhone (per la gioia di Steve Jobs) quei 4 metri quadri che separano il divano dalla la televisione diventano il dancefloor dove dimenarsi sulle note di una canzone dal testo memorabile

“Cuatro ruedas tiene mi coche
Cuatro pastillas me tomo esta noche”


Non so voi, ma io me ne sto andando a casa.