Sunday 24 July 2011

My Sharona


Ci sono persone che hanno la capacità di farmi sentire inadeguata. Costantemente inadueguata.
Persone al cui cospetto l'istinto mi ordina di stendermi a terra, prona, a pelle di leopardo, e da quella scomoda posizione implorarle con occhio remissivo che mi calpestino.

Queste persone hanno un ascendente talmente forte su di me che arrivo a giustificarle in qualsiasi situazione, anche quando, piú o meno inconsapevolmente, mi fanno del male.

Una di queste persone si chiama Sharona, newyorkese di nascita ma trasferitasi a Francoforte dopo il matrimonio e madre di tre bambini a cui ho fatto da babysitter per tre mesi al mio arrivo in Germania.

Sharona é viziata a priori, ma non ha gli strumenti per rendersene conto: ai suoi occhi il suo atteggiamento capriccioso non é sintomo di egoismo perchè nel piccolo mondo dorato su cui regna incontrastata tutte le persone che incontra nel corso della giornata respirano essenzialmente per soddisfare ogni suo desiderio.

L'universo é sharonacentrico. É sempre stato così, quello spostato di Galileo aveva torto marcio.

Questa persona mi ha accompagnata per mano sull'orlo dell'esaurimento nervoso: in seguito a un mio celebre abbandono di campo, quando le ho consegnato la scarpa che non ero riuscita a infilare sul piede della figlia, nascostasi sotto il divano dopo un inseguimento durato una ventina di minuti, sono stata definita di psiche fragile, incline agli scatti d'ira e in ultima analisi pericolosamente violenta. Ovvio che non mi ha fatto piacere sentirmelo dire, ma dal momento che la diagnosi arrivava da lei, la mia nemesi, invece che pensare che avesse preso un abbaglio da manuale, in quel momento mi sono sentita davvero psicolabile, incline agli scatti d'ira e, in prospettiva, violenta.

Quante volte avrei voluto andarmene sbattendo la porta, lasciando lei alle prese con il Play-doh prima masticato poi calpestato sul tappeto bianco, ma non ci sono mai riuscita. Tutta colpa del mio spirito da crocerossina che mi ha fatto inghiottire un sacco di bile.
Volevo solo rendermi utile, anelavo a un "grazie" che veniva pronunciato solo in occasione di catastrofi evitate all'ultimo secondo.

Non so cosa mi aspettassi: in fondo, quanto spesso il capo ringrazia uno dei suoi impiegati? E Sharona era il mio capo: mi pagava 270 euro al mese per 6 ore di lavoro al giorno, 6 giorni la settimana. E pensava di farmi un favore, anzi, di regalarmi un sogno.

Perchè Sharona non sa quanto costa l'affitto di un appartamento nel mondo reale, non sa che non tutti sono nati in famiglie che commerciano in diamanti, dove i soldi sono solo un optional, dato che tutto ciò che rientra nella categoria necessario (casa, cibo, vestiti, riscaldamento) é di serie.

Quando sono stata messa per l'ennesima volta di fronte alla mia inettitudine, ho convocato lei e il marito e ho rassegnato le mie dimissioni. Loro hanno ascoltato composti e sono riusciti ancora una volta a spiazzarmi quando, trattenendo le risate, mi hanno detto "ma Claudia, noi non ci aspettiamo cosí tanto da te...", come se avessi peccato di presunzione a sentirmi all'altezza di badare ai loro figli.
Un coppino morale di queste proporzioni é riuscito a aprirmi gli occhi sull'intera faccenda e sulla sua insensatezza. Non ho ritirato le dimissioni, e due settimane più tardi ero di nuovo una persona libera.

Ogni tanto vado ancora a fare un po' di ore come babysitter, perchè sento la mancanza dei tre mostriciattoli. Naturalmente, quando posso presentarmi al suo cospetto lo decide lei. Settimana scorsa la richiamo, dopo aver ascoltato un messaggio che mi aveva lasciato in segreteria, a metà fra lo scocciato e il disperato: le spiego che il week-end non sarò a Francoforte ma a Amsterdam per un addio al nubilato, e che di conseguenza non potrò darle una mano; aggiungo che sono parecchio impegnata al momento e mentre la aggiorno sui miei progetti lei mi interrompe:

"Allora sabato non puoi?"
"No, mi spiace, sono via ma..."
"Non devi giustificarti con me, e ora scusa che ho un ospite e lo sto facendo apettare
"..."

"I am sorry" sussurro nella cornetta dopo che lei mi ha appeso in faccia e mi accorgo di essere stesa a terra, prona, a pelle di leopardo.

A quanto pare non sono poi così libera.

Sunday 3 July 2011

Little Italy


All’ora di punta, lo chef esce dalla cucina per due ragioni: quando deve farsi bello con clienti di riguardo, o quando s’incazza. Io l’ho visto precipitarsi in sala e rivolgendosi alla moglie sbottare: “Ti ho detto di non prendere più ordinazioni per il menu tre, Il pesce l’abbiamo finito! Che ci devo mettere nei piatti, il cazzo mio?” e, senza attendere risposta, tornare ai fornelli.

Sto facendo un po’ di ore in un ristorante italiano, con 10 anni di ritardo sui miei coetanei che passavano le estati come camerieri a Londra, ma spinta dalla stessa motivazione: imparare la lingua.

Ho puntato su un ristorante italiano e mi sono trovata a districarmi fra pugliese -mi esci un paio di sedie dal retro?-, e tedesco, per comunicare con il piastrellista rumeno riconvertito a barista e soprattutto con i clienti.

Quando non capisco, invece di un semplice “wie, bitte?”, che corrisponde al nostro “come, scusi?” io dico testualmente “non ho capito” come ad ammettere candidamente che, oltre a pronuncia e vocabolario, deficito anche di comprendonio.

Ma prima ancora della lingua, sono altri aspetti che abbassano drasticamente le mie probabilità di diventare una brava cameriera… È un miracolo se ogni volta che sparecchio non infilzo un cliente con posate che scivolano dai piatti, o se con il guazzetto dei frutti di mare non gli faccio la doccia.

Sono maldestra o, come mi chiama affettuosamente il mio ragazzo, sono Edward Scheissehand.

Per i clienti più affezionati probabilmente sono “quella analfabeta che prende a gomitate le bottiglie”.

Ciononostante, dopo il periodo di prova non sono stata invitata a sparire dalla circolazione -“se sei andata bene tu, che problemi hanno tutti gli altri?” chiosa il poeta che mi ha definito manidimerda- e in segno di fiducia mi è stato chiesto di lavorare di sabato sera.

Il sabato sera il ristorante viene trasformato in un karaoke: al microfono membri della comunità italiana di Francoforte, impegnati in struggenti interpretazioni di brani di artisti che tengono alta la bandiera del nazionalpopolare; appollaiati sugli sgabelli del bar, i figli adolescenti che brillano per cattivo gusto: tra Nike luccicanti, colletti alzati e cappellini con visiere orientate come parabole, riescono a essere fuori moda anche a confronto di tamarri stagionati.

L’organizzatrice dell’evento, impossibilitata a servire ai tavoli in tutto lo splendore di permanente fresca, french manicure e tacco dodici, senza attendere la benedizione del proprietario mi carica di vassoi con l’ordine di dispensare prosecco gratis a tutti i presenti.

Il sabato sera qui è volgare come il ferragosto al Billionaire.

Mi sono tornati alla mente quei matrimoni di cugini lontani a cui sono stata da bambina, quando dopo caffè e ammazzacaffè il tastierista si mette a cantare i soliti dieci pezzi –i Nomadi sempre a dominare la playlist- finché zie ubriache scendono in pista e ballano scalze “Maracaibo”.

Ma mi sono ricordata anche della messa di Pasqua dell’anno scorso, cui ho partecipato per maturare punti paradiso: varcata la soglia della chiesa italiana di Francoforte sono stata assalita da un déjà vu causato probabilmente dal fatto che i fedeli ricordavano incredibilmente gli invitati al matrimonio della figlia di don Vito Corleone.

Tutto questo è "troppo italiano", per dirla alla Stanis LaRochelle.

Come quando a New York finisci per caso a Mulberry street, cuore di Little Italy, e ti viene un po’ di magone perché è anche grazie a certi stereotipi che siamo diventati una barzelletta…

O come quando al corso di tedesco una mia collega greca ha fatto una dichiarazione d’amore verso l’Italia e la nostra insegnante le ha chiesto se amasse pure Berlusconi…

Non sono una grande fan dell’italianità esibita come il Rolex, ma amo il mio paese, e vorrei solo trovarmi nella situazione di non doverlo continuamente giustificare.