È un dato di fatto, e finora sono riuscita a non farne un
dramma: essere disoccupata e non sentirlo,
forse perché, in risposta a un istinto di conservazione diventato prepotente in
un momento così incerto della mia esistenza, sono riuscita a stabilire una
routine.
Mi sveglio quando la Gilda, il cocker di casa, appoggia
il suo naso umido contro il mio, come a controllare che respiri ancora, confusa
dall’assenza di logica: “com’è che al piano di sotto si fa colazione, c’è cibo
sul tavolo e questa non si muove dal letto?”; allora mi alzo, e ogni mattina mi
concedo il lusso di bere il caffè in pigiama, leggendo un libro e senza
controllare continuamente l’orologio. Poi mi lavo la faccia, accendo il
computer e vado online a fare il punto della situazione. Fino all’ora di pranzo
leggo e rispondo a mail, annunci o compilo form. Cazzeggio anche parecchio su Facebook,
confesso, ma quello si fa anche in ufficio. Il pomeriggio lo inizio con i
Simpson (l’unico programma guardabile) e quando spengo la TV cerco di trovare
qualcosa da fare che non mi obblighi a stare di nuovo seduta davanti a uno
schermo. Tra i progetti più riusciti ho incollato foto a un album, creato
spille e riordinato la soffitta. Un paio di volte a settimana aiuto un liceale
a preparasi a verifiche e interrogazioni.
A singhiozzo ma comunque da quasi tre mesi,
questa è la mia vita.
Non sono una persona metodica, ma stavolta un po’
d’ordine me lo sono dovuta imporre: ho un file Excel su cui riporto con rigore da ragioniere nome
dell’azienda, indirizzo del sito, e-mail del contatto e data in cui ho inviato
il CV. Recentemente ho aggiunto la colonna “risposta” e lì è tutto un copia e
incolla di “no grazie”.
Ieri, con il rigore scientifico che questo schema mi
impone, mi sono messa a contare le richieste che ho inviato da ottobre a oggi.
Sono 179, una cifra che, sommata ai curriculum consegnati a mano in scuole e
studi di Brescia e Milano, sfonda il ragguardevole tetto dei 200.
200 CV che corrispondono a 200 potenziali posti di
lavoro, e in tutta risposta due contratti consegnati per presa visione e non
controfirmati, un paio di trattative in atto, una ventina di repliche negative
ma incoraggianti e il resto inghiottito dall’oblio.
E anche se solo il 10% di questo numero che continua a
sembrarmi importante riguardava posizioni aperte, anche con l’autocandidatura
non mi sembra di aver fatto improvvisate.
La legge dei grandi numeri qui non si applica: non esiste
una percentuale di successo a cui aggrapparsi aumentando esponenzialmente il
numero dei contatti. Forse alcune delle mie richieste sono state un po’
azzardate, per posizioni che non rispecchiavano quelle da me occupate in
passato, ma mi piaceva aumentare il fattore casualità nell’equazione.
In generale però, la mia ricerca è stata guidata dal fatto
che io mi ci vedevo alla scrivania di ognuno di questi uffici; ogni lavoro per
cui ho fatto richiesta me lo sono provato addosso, come un paio di jeans.
Tutti siamo disposti a pagare caro quel paio di jeans che
ti calzano come un guanto a cui saremo eternamente grati per averci salvato in innumerevoli occasioni in
cui nessuna mise sembrava funzionare; ma se li troviamo nei saldi, possiamo farci
andar bene anche un paio di jeans che vanno un po’ stretti, o magari quelli che
non fanno un grande favore alla figura, ma che si abbinano all’intero guardaroba.
Non trovo lavoro e non capisco dove sia il problema:
peccherò di presunzione, ma non è solo colpa mia. Non posso essere l’unica
responsabile.
Ho letto e riletto il mio CV, e la mail che lo
accompagna, drammatizzando il distacco da quelle parole di cui so di essere
l’autrice: sono entrambi studiati, rielaborati e ripuliti fino alla nausea per raggiungere
il giusto equilibrio di sintesi e leggerezza, ottenuto con ingredienti quale foto
segnaletica, font sbarazzino, dettagli personali e personalizzati.
No, il problema non sono io. Pur con i miei evidenti
limiti, il mio navigare a vista in campo professionale, il mio totale disinteresse
(o forse disillusione) riguardo a prospettive di carriera, non sono l’ultima
degli stronzi.
Sono un essere pensante, bisognoso di contatto umano e
con un disperato bisogno di sentirsi utile.
Puntando proprio sul fattore umano, mi sono prefissa di presentarmi
in carne ed ossa in tutti gli uffici che è possibile raggiungere con una gita
fuori porta. Settimana scorsa ero a Milano con una lista di indirizzi e una
cartina e per una dozzina di volte mi si è ripetuta davanti agli occhi la
stessa scena: suono, mi viene aperto e avanzo nel silenzio di un immacolata
hall; gli uffici non si vedono, né tantomeno le persone che negli uffici ci
lavorano: ogni intrusione viene bloccata dal candido sorriso di un’angelica
segretaria che sbucando da dietro il colossale MAC che troneggia sull’unica
scrivania visibile prende in consegna i due fogli pinzati insieme che le
allungo -mi sembra una bestemmia passarle della carta, per di più strapazzata
da ore passate nella mia borsa- e, senza smettere di sorridermi, mi dice "lo
consegno al/alla responsabile al termine del meeting in cui è al momento
impegnato/a". Prima di salutarmi, un paio di loro mi hanno pure chiesto per
cosa mi candidassi, ma per pura curiosità, che andava oltre a quello per
cui sono state addestrate.
Ma i più belli sono stati quelli della Fox: bypassata la
scrivania della segretaria –scrivania vuota, segretaria malata o in pausa
pranzo- mi è toccato scomodare un creativo dal suo scranno. Qui addirittura,
facilitata dalla prossimità fisica ho azzardato una stretta di mano e intonato
quattro parole di presentazione. La reazione: dopo avermi fatto notare che ero
nella città sbagliata -del recruiting se ne occupa Roma- arriva il consiglio,
brillante: “non ha consultato la sezione lavora
con noi del sito?”.
…
…
Ti rispondo via mail.