Riemergo dalla fermata della metro facendo ciondolare le
chiavi; è uno splendido pomeriggio di inizio primavera, e dopo 20 minuti
trascorsi sottoterra non vedo l’ora di pedalare fino a casa.
Ci metto un istante più del necessario a individuare la
mia bicicletta, e questo perché risulta quasi interamente nascosta da una
persona che vi si è accovacciata davanti.
Senza accelerare il passo, accorcio la distanza tra me e
quella schiena che mi sembra indaffarata a armeggiare con il mio lucchetto.
“Posso aiutarla?” mi sento chiedere, con la dolcezza di
qualcuno che muore dalla voglia di compiere la buona azione quotidiana.
Vedo la schiena irrigidirsi, come in una preda che annusa
la minaccia; negli interminabili secondi in cui il corpo si gira verso di me,
il viso cerca di simulare un’espressione sorpresa:
“È sua questa bicicletta? Perché l’ho vista cadere e
stavo cercando di assicurarla alla ringhiera...”
Nel frattempo la mia nuova conoscenza si è alzata, e con aria di scuse, cerca di
scartarmi di lato; io mi faccio più vicina, incastrandolo fra me e il muretto. Presa in contropiede dalla mia lucidità, decido di stare
al gioco: “Grazie, ma non era necessario...” e poi, afferrandogli il gomito e
avvicinando la faccia alla sua sibilo: “...e se lei si avvicina di nuovo alla
mia bicicletta, mi toccherà denunciarla”.
Annuisce, smascherato nelle sue cattive intenzioni, e mi
sembra pure di indovinare del rimorso nello sguardo che abbassa immediatamente
mentre si allontana con le mani in tasca.
Non ho redento nessuno, sia chiaro, ma sono sollevata
al’idea che oggi non sia toccato a me tornare a casa a piedi.
Ecco cosa può succedere in un affollato angolo di Milano,
tracciato dalle persone che lo attraversano veloci come le palline in un
flipper.
Ecco cosa mi è passato davanti agli occhi qualche giorno
fa, quando arrivata alla fermata ho realizzato che la mia bici non era più lì
ad aspettarmi.
Ecco cosa avrei voluto raccontare, invece che sospirare un
laconico “mi hanno fatto la bici in Porta Genova”.
Perché una storia così ti
lascia sperare che non ci sia sempre un unico finale.
Ecco cosa è invece successo: che una giovane donna
emancipata, davanti a una scorrettezza così immeritata, scoppi in lacrime e
senta il bisogno di abbracciare la mamma, come quando alle elementari si
sbucciava le ginocchia giocando in cortile.
Un'immagine sicuramente meno valorosa, però anche più
vicina alla realtà.
E forse la parte più difficile da digerire è la beffa che segue il danno:
perché ti ritrovi sconfitto, ingiustamente privato di qualcosa che non solo ti
apparteneva, ma che consideravi di vitale importanza, e tutte le persone con
cui ti sfoghi ti mettono davanti alla tua parte di responsabilità; perché se
hai parcheggiato per 2 giorni di seguito nello stesso posto, se non ti sei
procurato una catena che vale più della bici, se hai scelto una bici che,
magari non è il top della gamma, ma che comunque si piazza bene sui mercatini
delle pulci, perché è sottile, leggera, veloce, viola/grigia e coi cambi sulla
canna (una bici che il wannabe hipster si sogna di notte nella versione a
scatto fisso) beh, allora dai, te la sei andata a cercare...
Il mio karma deve darmi una tregua, nel frattempo sopporterò l'umiliazione di girare con una bici che non è mai stata di moda, sperando che almeno questa non faccia gola a nessuno.