Friday 30 March 2012

Ladri di biciclette


Riemergo dalla fermata della metro facendo ciondolare le chiavi; è uno splendido pomeriggio di inizio primavera, e dopo 20 minuti trascorsi sottoterra non vedo l’ora di pedalare fino a casa.

Ci metto un istante più del necessario a individuare la mia bicicletta, e questo perché risulta quasi interamente nascosta da una persona che vi si è accovacciata davanti.

Senza accelerare il passo, accorcio la distanza tra me e quella schiena che mi sembra indaffarata a armeggiare con il mio lucchetto.  
“Posso aiutarla?” mi sento chiedere, con la dolcezza di qualcuno che muore dalla voglia di compiere la buona azione quotidiana.
Vedo la schiena irrigidirsi, come in una preda che annusa la minaccia; negli interminabili secondi in cui il corpo si gira verso di me, il viso cerca di simulare un’espressione sorpresa:
“È sua questa bicicletta? Perché l’ho vista cadere e stavo cercando di assicurarla alla ringhiera...”
Nel frattempo la mia nuova conoscenza si è alzata, e con aria di scuse, cerca di scartarmi di lato; io mi faccio più vicina, incastrandolo fra me e il muretto. Presa in contropiede dalla mia lucidità, decido di stare al gioco: “Grazie, ma non era necessario...” e poi, afferrandogli il gomito e avvicinando la faccia alla sua sibilo: “...e se lei si avvicina di nuovo alla mia bicicletta, mi toccherà denunciarla”.
Annuisce, smascherato nelle sue cattive intenzioni, e mi sembra pure di indovinare del rimorso nello sguardo che abbassa immediatamente mentre si allontana con le mani in tasca.

Non ho redento nessuno, sia chiaro, ma sono sollevata al’idea che oggi non sia toccato a me tornare a casa a piedi.
 
Ecco cosa può succedere in un affollato angolo di Milano, tracciato dalle persone che lo attraversano veloci come le palline in un flipper.  

Ecco cosa mi è passato davanti agli occhi qualche giorno fa, quando arrivata alla fermata ho realizzato che la mia bici non era più lì ad aspettarmi.

Ecco cosa avrei voluto raccontare, invece che sospirare un laconico “mi hanno fatto la bici in Porta Genova”. 
Perché una storia così ti lascia sperare che non ci sia sempre un unico finale.

Ecco cosa è invece successo: che una giovane donna emancipata, davanti a una scorrettezza così immeritata, scoppi in lacrime e senta il bisogno di abbracciare la mamma, come quando alle elementari si sbucciava le ginocchia giocando in cortile.
Un'immagine sicuramente meno valorosa, però anche più vicina alla realtà.

E forse la parte più difficile da digerire è la beffa che segue il danno: perché ti ritrovi sconfitto, ingiustamente privato di qualcosa che non solo ti apparteneva, ma che consideravi di vitale importanza, e tutte le persone con cui ti sfoghi ti mettono davanti alla tua parte di responsabilità; perché se hai parcheggiato per 2 giorni di seguito nello stesso posto, se non ti sei procurato una catena che vale più della bici, se hai scelto una bici che, magari non è il top della gamma, ma che comunque si piazza bene sui mercatini delle pulci, perché è sottile, leggera, veloce, viola/grigia e coi cambi sulla canna (una bici che il wannabe hipster si sogna di notte nella versione a scatto fisso) beh, allora dai, te la sei andata a cercare...

Il mio karma deve darmi una tregua, nel frattempo sopporterò l'umiliazione di girare con una bici che non è mai stata di moda, sperando che almeno questa non faccia gola a nessuno. 

Thursday 15 March 2012

Ignorance is bliss

Questa è la storia di come, senza quasi rendermene conto, ero di nuovo una pendolare.
In che modo fossi ritornata a rimbalzare come la pallina di un flipper tra le stazioni di Rovato e Lambrate a me poteva essere sfuggito, ma tutti quelli intorno a me avevano notato un mio repentino imbruttimento.

Ma questa è una storia a lieto fine: sono bastate quattro settimane di fegato spappolato dal prendere freddo e rabbia su banchine deserte a farmi decidere di investire uno stipendio ancora tutto da guadagnare nell’affitto di una stanza in quel di Milano.

Passare tre ore al giorno col culo su un sedile non è impresa da poco ma ci si fa il callo, come a qualsiasi cosa: l’essere umano ha un istinto di sopravvivenza e una capacità di adattamento che sconfinano nel soprannaturale.

Ma uno non può passare tutto il viaggio a guardare fuori dal finestrino: sulla tratta Milano-Venezia non ci sono né i panorami né i compagni di bridge dell’Orient Express.
Rispetto agli automobilisti almeno, chi viaggia in treno può ammazzare il tempo intrattenendosi in diversificate attività.
Se viaggio la mattina io di solito riprendo da dove sono stata interrotta dalla sveglia, anzi da un attimo prima: dopo un sonnellino ristoratore, mi servo la seconda colazione e solo allora comincio a portarmi avanti con il lavoro; se invece voglio svagarmi mi dedico a un romanzo o a un podcast.

Tutte attività ostacolate dalla logorrea sdoganata dalle tariffe flat dei cellulari.
Come riuscire a concentrarti su un libro se la persona seduta a 30 centimetri da te, preoccupata per la salute intestinale del suo bimbo, telefona a tutte le mamme dei compagni di classe del figlio per raccogliere dettagliate informazioni sulle deiezioni dei bambini (l’ha fatta? Quante volte? Di che colore era?).

Forse l’unica cosa a cui non ci si abitua facilmente sono proprio i compagni di viaggio…

Una mattina di quelle polari del mese scorso, in cui i treni risentivano ancora degli strascichi dei ritardi causati dal maltempo, ho viaggiato per 70 minuti (e 70 chilometri) nello spazio tra le porte e il bagno. Eravamo almeno una decina a dividerci quattro scricchiolanti metri quadri. Come in un ascensore. In caduta libera, a giudicare dalle sbandate.

Io, in equilibrio precario con una maniglia fra le costole e la borsa fra le ginocchia, cercavo di leggere, consapevole che alle 9.18 di un lunedì mattina avevo già esaurito le scorte di pazienza per la settimana.

Ma poi, due stazioni dopo la mia, è salita lei. E la mia giornata ha acquistato un senso.

Un paio di leggings bianchi, portati con disinvoltura sotto a un piumino corto, una stuccata di fondotinta e i capelli torturati dalla piastra erano già un bel biglietto da visita. Ma poi questa dea ha aperto bocca, dando il via a un escalation di puttanate interrotta solo dal termine corsa del treno.

A quanto pare, princess quella mattina non aveva nessuna intenzione di andare a scuola: trascinata per l’orecchio dalla madre fino al portone, l’aveva trovato chiuso causa maltempo; aveva allora deciso di fare un giro di shopping a Milano, scortata da due ancelle. Immaginatevi questo resoconto condito da bestemmie così colorite da far impallidire un muratore bergamasco.

Le dame di compagnia si interessano allora al suo fine settimana: princess è stata in discoteca, come tutti i fine settimana, d’altronde.

Guardavo questa ragazzina e provavo una certa inquietudine: quando io avevo 16 anni il massimo della trasgressione era leggere libri come Trainspotting, mentre per lei vivere come uno dei protagonisti è la normalità.

Ognuno è libero di essere adolescente, per carità. Non so quanti di noi, se potessimo tornare indietro ci riproverebbero, ma è in quegli anni che si impara tutto. Forse per questo stonava la sicurezza con cui questa ex bambina si improvvisava tuttologa.
Perle ai porci, era un peccato non raccoglierle!

Di seguito, per accuratezza filologica, riporterò alcune delle citazioni che mi appuntavo integralmente sul cellulare fingendo di comporre un lunghissimo sms. Lo so, non sarà eticamente inappuntabile prendermela con un soggetto problematico, ma pur di non morire di noia questo e altro!

MUSICA: “A me piace la techno. Ti entra nel cervello”
(O fa eco nella scatola cranica, come succede a te)

MODA: (dando consigli sull’outfit adatto a una festa) “Io mi metterei le Hogan. O i tacchi”
(Ottimo. Perché non direttamente le Hogan con i tacchi? Quintessenza dell’eleganza)

PROSPETTIVE PER IL FUTURO: “… Poi sabato sono salita sul palco con la vocalist a fare bordello. Lei fa cagare, è brutta ma è famosa: fa un cifro di serate a Alessandria e altri posti strani.
Ci sta fare la vocalist: bevi una cifra, ti fanno le foto, sei sempre al centro dell’attenzione, di giorno non fai un cazzo … L’unica menata è se ti viene il mal di gola…”
(Ineccepibile)

DRINK: “Il fragolino ci sta una cifra”
(Eccepibile. Però alla tua età pensavo che la Keglevich alla menta fosse il non plus ultra.)

Io non sono Esopo, e questa non era proprio una favola, ma una morale si può comunque trarre:
L’ignoranza altrui è affascinante, e può costituire materia di intrattenimento.
L’ignoranza propria invece, a giudicare dalla frequenza con cui princess pronunciava “strabello” è un buon vaccino contro l’asprezza della realtà.

Peccato che, se stiamo a ascoltare Socrate, il riconoscere la propria ignoranza sia di per sé sintomo di saggezza…
Siamo proprio destinati alla delusione.