Wednesday 28 November 2012

Suor Andreina

Io ho imparato a leggere a 5 anni, perché ho giocato tantissimo con il grillo parlante che mi ha portato santa Lucia. Adesso ho 6 anni e mezzo e sto imparando a scrivere in corsivo.
La zeta in corsivo maiuscolo è difficile: è piena di pance e trattini, e mi esce tutta storta. Perché il mio cognome inizia proprio con la zeta? Suor Andreina sta passando fra i banchi a controllare che abbiamo scritto il nostro nome corretto sul quadernone di ortografia; lei è la nostra la maestra: è vecchissima, perché ha i capelli grigi che le escono dal velo, e ha lo stesso odore che sento quando prima di pranzo vado in cucina a prendere il cestino con il pane da portare in refettorio.
A mia mamma suor Andreina piace perché è severa, a me non piace perché è troppo severa.

Ecco, ho fatto un pasticcio: ho scritto il mio nome tutto a penna e non riesco a cancellare la zeta con la gomma, nemmeno se lecco il lato blu come mi ha fatto vedere Marco. La mia zeta non sembra la zeta che suor Andreina ha disegnato con il gesso sulla lavagna... la mia zeta è proprio brutta. Adesso strappo il foglio e ci riprovo.

Oggi sul banco ho l'astuccio delle Barbie di Lidia. Lidia è la mia amica del cuore, e ci scambiamo le cose: lei mi ha prestato le penne che profumano di frutta e io le ho dato il mio temperino a forma di lattina di coca cola. Lidia però non è la mia vicina di banco, anche se a me piacerebbe molto. In classe siamo in 22, 15 maschi e 7 femmine, e vicino a me ci sono Stefano da una parte e la finestra dall'altra.

La mia scuola è più bella dell'asilo di mia sorella perché qui c'è un giardino grandissimo, con le altalene che vanno veloce e un campo da calcio vero. Dentro al giardino vive un pavone, tutto blu e verde: a me fa un po' paura perché quando strilla sembra un elefante, però quando guardo fuori dalla finestra dell'aula lo cerco sempre. A volte le suore lo lasciano uscire dalla gabbia, ma non quando facciamo ricreazione. Settimana scorsa ho trovato nel prato una piuma della coda, di quelle che il pavone usa per fare la ruota  e l'ho regalata alla mamma. 

A me piace tantissimo colorare, e anche a Luisa, la mia sorellina, ma lei è piccola e non riesce a stare nelle righe. Ieri, durante educazione artistica, abbiamo colorato l'autunno; era tutto su una fotocopia: una zucca, tre castagne e due foglie cadute da un albero. Dato che ora sono grande, posso usare i pastelli acquerellabili, che devo stare attenta a non far cadere, altrimenti si rompe la mina dentro e ogni volta che si temperano si stacca la punta. Io ho una scatola di metallo con 25 pastelli acquerellabili che tengo sotto al banco e quando li uso poi li rimetto sempre via in ordine di colore, dal bianco al nero. 
Quando dovevo colorare l'autunno ho preso il viola, il mio colore preferito, e ho colorato la zucca. Sono stata velocissima. Ma quando ho chiamato suor Andreina al banco e la ho fatto vedere cosa avevo fatto, lei non ha sorriso come fa sempre la mamma quando le porto i miei disegni. No, lei mi ha detto: “Claudia, le zucche non sono viola, sono arancioni”. Poi ha preso un'altra fotocopia e due dei miei pastelli, quello arancio chiaro e quello arancio scuro, e ha colorato un pezzo di zucca, facendo le sfumature. “Si fa così”, mi ha detto “vai avanti da sola”. 
Mi sono guardata intorno: tutti i miei compagni stavano colorando la zucca di arancione. 
Per fare le sfumature come quelle di suor Andreina, lecco la punta del pastello, perché è così che si trasforma in acquerello. Ha un sapore buonissimo, anche se non sa di arancione.

Quando sentiamo bussare alla porta, tendiamo l’orecchio, 22 pastelli si fermano a mezz’aria e 22 paia di occhi guardano la maestra: suor Andreina va ad aprire, fa entrare un uomo con dei grossi baffi neri e ci dice: “Bambini, questo è il sindaco di Rodengo Saiano, salutate”. Io non so cosa fa il sindaco di lavoro, ma so che è una persona importante. Io e i miei compagni diciamo “Buongiorno”, perché ai grandi non va bene dire “ciao”. Il sindaco non dice nulla, guarda i nostri disegni appesi alle pareti e la zeta sulla lavagna, poi sorride e se ne va. Quando il sindaco chiude la porta però, suor Andreina non sorride: è tutta rossa in faccia, ha le mani chiuse e pugno e urla “siete un branco di somari, dovevate alzarvi!”.
Siamo stati davvero così somari? Noi ci alziamo sempre quando entrano le maestre, chi lo sapeva che il sindaco è più importante delle maestre? E poi il sindaco non sembrava arrabbiato, suor Andreina invece sì.

Io non voglio che Suor Andreina si arrabbi: quando si arrabbia strilla più forte del pavone che sembra un elefante, quando mi sgrida io mi metto a piangere e quando piango i miei compagni si mettono a ridere, e a me non piace e così piango ancora di più.

Ho pianto in classe quando una volta mi sono dimenticata di fare i compiti di matematica, e Suor Andreina mi ha messo un brutto voto. Non avevo mai preso male, io prendo sempre bene, e a volte benissimo.  
Ma quella volta sul quaderno c’era scritto male grande, in rosso, con tre punti esclamativi e a penna. Non potevo cancellarlo, e avevo paura a dirlo alla mamma, ma quando lei lo ha visto mi ha spiegato che non era successo niente, e che se la prossima volta sto più attenta non succederà più.

Quando arrivo a casa il pomeriggio la mamma prepara la merenda e io guardo i cartoni con Luisa. I miei cartoni preferiti sono i puffi. Io vorrei essere puffetta, ma la mamma mi taglia sempre i capelli corti come un maschio. Gargamella, che è cattivo perché vuole mangiare i puffi, ha un vestito lungo e nero come quello di suor Andreina. Io e i miei compagni invece abbiamo tutti il grembiule blu, e sembriamo proprio i puffi.

Certi giorni mi piacerebbe essere un puffo perché loro non vanno a scuola e non devono fare i compiti. Ma poi mi ricordo di Gargamella e penso che anche se suor Andreina a volte è cattiva, almeno lei non vuole mangiarci.

Grand Central, novembre 2006


L’unica cosa che mi da’ la forza di uscire dal piumone in questa gelida mattina di novembre è il pensiero che da domani potrò dimenticarmi di puntare la sveglia. Se mi alzo e inizio questa giornata, ogni minuto che passa sarò più vicina a un’intera settimana di tregua da questo tour de force.

Sono stata ripresa da Melissa perché negli ultimi giorni il nostro rituale mattutino si è consumato in tempi un po’ stretti, costringendo le bambine a fare colazione di corsa e rischiando di arrivare tardi a scuola.

In realtà la sveglia suona sempre alla stessa ora, ma ultimamente gli incidenti di percorso si sono moltiplicati; ieri mattina ad esempio, quando minacciava neve, Harriet voleva uscire di casa in maniche corte e c’è voluto un quarto d’ora di trattative per convincerla che portarsi un maglione non era poi un’ idea tanto malvagia.

A me fino alla quinta elementare come mi vestivo lo decideva mia mamma, e infatti sfoggiavo dei colletti con il pizzo da fare invidia al piccolo lord Fauntleroy. A me fino a quando non ho raggiunto mia mamma in altezza, se facevo i capricci arrivavano anche un paio di sculaccioni ben assestati, a risolvere il contenzioso.

Ma questi bambini americani sono organismi più complessi, versioni in miniatura dei loro genitori, nevrosi e idiosincrasie comprese: e così, mentre l’istinto mi urlava di infilare la testa e le braccia di Harriet dentro un maglione, senza grosse giustificazioni, lo sguardo della sua mamma affacciata sulla soglia mi obbligava a fingere di ignorare il tono polemico e continuare l’opera di diplomazia. Infruttuosa. “Tu non puoi dirmi cosa devo fare!” mi ha urlato a un certo punto Harriet, con un’aria di sfida che io non ho sfoggiato  nemmeno negli anni della contestazione adolescenziale. E se dice queste cose adesso che ha cinque anni, non oso immaginare che slogan farà suoi quando l’adolescenza arriverà davvero.

L’aria è elettrica in questi giorni: sono tutte e tre nervose, mamma e figlie, perché stasera arriva Steve, il papà di Lyla e Harriet, a prendersi la sua fetta semestrale di affetto filiale.
Dell’ex marito so solo che se n’è tornato in Inghilterra a inventarsi una nuova famiglia proprio nell’autunno del 2001 in un momento drammatico sia per New York che per Melissa, che aveva recentemente perso la madre poche settimane dopo aver avuto la seconda figlia. Sono poche informazioni, ma sicuramente non rappresentano un buon biglietto da visita.
Un paio di settimane all'anno Steve, invece che essere una voce dal forte accento di Manchester che telefona il giovedì per salutare, si materializza e porta le figlie in vacanza con lui.  

Sono genitori part-time, questi WASP che hanno studiato e continuano a lavorare nella grande mela, ma che si sono spostati dal bilocale alla villetta a nord della città per permettere alla prole e a un cane di scorrazzare felici in giardino. Troppo impegnati a guadagnare soldi per pagare l’au pair da sfoggiare alla cena di Thanksgiving per dedicarsi a passatempi quali svegliare o mettere a letto i propri figli.
E sono genitori full time le au pair europee e le bambinaie sudamericane che si incontrano al parco giochi il pomeriggio, alla guida di passeggini superaccessoriati.

All'ora in cui Melissa scende in cucina per la dose quotidiana di caffè e New York Times io rientro a casa dopo aver svegliato, vestito, pettinato, sfamato e accompagnato a scuola le sue figlie. All'ora in cui lei rientra per cena, io ho già rifatto l’intero processo al contrario.

Vivo con una mamma single, e non la invidio: dal lunedì al venerdì è tappata in ufficio, mentre il fine settimana viene travolta da un turbine di attività pianificate in modo che le figlie non si annoino mai.
Chissà cosa farà questo fine settimana, quando loro saranno con il padre… l’uomo che prima l’abbandona e torna solo per portarsi via le sue figlie;  l’uomo cui lei ha impedito di presentarsi a casa, perché sa che non riuscirebbe a nascondere il dolore e la rabbia del distacco di fronte a Lyla e Harriet.
Ha deciso che è meglio fare tutto in sordina, e ha quindi chiesto a me di accompagnare le bambine in città, dove il padre ha preso una stanza in albergo.

Nel pomeriggio preparo la valigia: Melissa vorrebbe darmi delle indicazioni, ma non riesce a concentrarsi. Sono tre giorni ormai che è in stato catatonico: è gelosa che le bambine vogliano passare del tempo con Steve, e allo stesso tempo desidera che si trovino bene con lui anche questa volta, e che non sentano troppo la sua mancanza. Ci accompagna in stazione, e riesce pure a sorridere quando il treno lascia la banchina e noi la salutiamo dal finestrino. Che donna: da grande voglio essere come lei. Magari con un pizzico di fortuna in più.

Sul treno Lyla è euforica: mi racconta delle ultime vacanze con il padre -d’estate in una casa in Toscana con una mega piscina, circondata da uno stuolo di fratelli e sorelle acquisiti- e comincia a fare una lista di tutto quello che vorrebbe fare in questi giorni speciali in città. Harriet è invece silenziosa, combattuta tra la voglia di rivedere papà e la paura di stare lontano da mamma.

Arriviamo a Gran Central all’ora di punta, e mentre attraversiamo il grande atrio alla ricerca dell’uscita giusta per montare su un taxi, l’incoscienza mi abbandona: d’un tratto è come se mi vedessi dall'alto  mentre tiro un trolley e tengo per mano due bambine di 5 e 9 anni, noi tre a formare una piccola carovana colorata persa nella pancia di una città che non conosco. Un brivido mi attraversa la schiena, nonostante mi renda conto che è una cosa semplice quella che mi è stata chiesta, perfettamente calibrata sulle mie possibilità. E infatti non ho problemi a fermare un taxi, caricare bagagli e passeggeri e indicare l’indirizzo corretto al tassista.  

Dal taxi telefono a Steve, e quando raggiungiamo l’albergo lui è già sulla soglia ad aspettarci. La bambine gli saltano al collo mentre io scarico la valigia, poi mi ringrazia e ci diamo appuntamento per la domenica.  

Mentre cammino veloce verso la metropolitana mi sento leggera: sarà che sono ufficialmente in vacanza penso, e per cinque lunghi giorni non dovrò prendermi cura delle bambine… Ma è una leggerezza strana questa, che non mi fa rilassare, come quando hai la sensazione di aver dimenticato qualcosa da qualche parte: forse non sono leggera, forse ho solo un grande vuoto dentro. Ho lasciato Lyla e Harriet da cinque minuti, e già mi mancano.

Io che ogni lunedì avevo bisogno di essere rassicurata al telefono da mia madre, per sentirmi ripetere che sarei sopravvissuta a un’altra settimana, io che temevo quotidianamente di non farcela, io che facevo i capricci perché non tutti i giorni erano come il sabato che passavo a perdermi tra le street di Manhattan  io ero in grado di prendermi cura di un altro essere umano. Anzi, di due.

Le cose, dopo quel viaggio in treno, non sarebbero mai più state le stesse: partivo figlia, sorella maggiore di due bambine al seguito, e tornavo madre, o quasi.
Non sono mai cresciuta tanto in un pomeriggio solo.

Sunday 11 November 2012

Vernissage

“Alla galleria d’arte dove lavora Marco inaugurano una mostra domani sera, potremmo fare un salto…” mi dice Valentina, mentre scola la pasta. “Volentieri” rispondo io con genuino entusiasmo, mentre cerco un buco per infilare la mia spesa. Siamo nella cucina che da due giorni è anche la mia cucina. Una cucina piena di pensili pieni di confezioni piene di cibo. Provviste per eserciti per mesi d’assedio. O uno degli schemi infernali degli ultimi livelli di Tetris.

Valentina e Marco sono due dei miei nuovi coinquilini. In tutto siamo in cinque, in questo “villino cielo terra” come diceva l’annuncio su Porta Portese, recentemente ristrutturato, trasformato in studentato e sottratto agli studenti assegnatari dopo un paio d’anni di feste alla Animal House, che hanno messo a repentaglio non solo la sicurezza degli occupanti ma soprattutto la struttura della casa. Ora l’affitto lo paghiamo noi, trentenni lavoratori dalle belle speranze. 
Cinque vite che si annusano in questa grande cucina, e si nascondono dietro alle porte delle camere da letto.  

Casa nuova quindi, e coinquilini nuovissimi. Non è la mia prima volta: dopo sei spostamenti negli ultimi otto anni dovrei esserci abituata eppure… C’è sempre il brivido della scoperta. Potrebbe andare benissimo, o diametralmente male. Ma sono un’ottimista cronica e poi, come dice mia mamma “non ho sposato nessuno” quindi tanto vale provarci.

Sono a Roma da un paio di mesi, ho riallacciato i contatti con un gruppetto di amici fidati di base qui, ma gente nuova  non l'ho ancora conosciuta. Mi sono trasferita per lavoro, incuriosita da come le coincidenze si fossero allineate per facilitarmi la transizione da Milano nel giro di tre settimane, e da Roma, che finora non ha deluso le aspettative. Però il sabato sera a volte lo passo da sola. E non mi piace. Per questo ho puntato sul Pigneto: perché sarà scontato, ma è il quartiere dove sembra che tutto sia sul punto di accadere. E per questo ho scelto una casa grande, con un giardino pensato apposta per la grigliate estive, e tanti coinquilini. Per moltiplicare le occasioni di contatto umano.

Arriva la sera dell’inaugurazione della mostra: esco dall’ufficio dove ho passato 9 ore in compagnia di un mal di testa martellante e mi dirigo verso via Giulia guidata da un pezzo di carta su cui ho ricopiato minuziosamente la porzione di città suggerita da Google Maps. 
Devo smettere di convincere me stessa dell’inutilità di uno smartphone.

Valentina è in ritardo, ma mi sono accertata, tempestandolo di sms, di trovare Marco il quale, appena mi avvicino all’ingresso, mi viene incontro, mi saluta con trasporto e fa gli onori di casa mettendomi in mano un bicchiere e riempiendolo di prosecco, mentre mi presenta a alcuni suoi amici tutti incamiciati. La parola vernissage mi scoppia in testa, seguita dall’aggettivo inadeguata riferito a me, con i capelli non proprio freschi e un brufolo sul mento che il correttore non riesce a mascherare. “Devo fare bella impressione”, è il mio mantra. “questa gente non mi conosce. Non ancora, almeno”.  

Guadagno del tempo infilandomi in galleria per vedere le opere in mostra. Mi piacciono. Non saprei dire da che corrente prendano ispirazione, o come venga espresso il fil rouge de “La città meccanica” che da’ il titolo, ma sono tutti quadri che appenderei volentieri a casa. Mi piacciono i colori.
Quando mi affaccio di nuovo in strada, trovo Matteo, il coinquilino numero quattro. Ci eravamo incrociati dodici ore prima in pigiama a aspettare che la caffettiera si mettesse a gorgogliare e quasi non lo riconoscevo nel trench avvitato che fa eco ai suoi tre anni passati a Londra. Mentre ci lanciamo in un’accalorata discussione su quale sia la capitale europea più vivibile e perché Roma non può rientrare nella lista (argomento su cui sono ferratissima), ci raggiunge anche Valentina che esordisce con “madò, mentre cercavo parcheggio vi sono passata davanti con il lato della macchina tutto ammaccato!”. 
A quanto pare, non sono l’unica che ha paura di sentirsi fuori posto.

Dopo il terzo giro di prosecco e sigaretta, Marco saluta l’artista, chiude la galleria e ci chiede se vogliamo andare a cena con lui e alcuni suoi colleghi. Non che avessimo altri programmi. Non io, almeno.

E così senza quasi rendermene conto sono seduta a un tavolo con otto persone e tra queste quella con cui ho passato più tempo la conosco da due giorni. Di nuovo si riaffaccia il brivido della scoperta.
Il mattatore della serata è senza dubbio Antonello, un collega di Matteo che ha fatto della simpatia forzata il suo marchio di fabbrica. È un atteggiamento abbastanza fastidioso il suo, ma che in questa particolare situazione si rivela provvidenziale: la sua loquacità infatti non lascia spazio all’imbarazzo proprio dei momenti di silenzio che si creano tra persone che non si conoscono bene.

L’argomento che ci accomuna è la casa, chiamata Fortebreaccio dal nome della via in cui si trova, e da tutti i presenti frequentata in tempi non sospetti. “Se quelle mura potessero parlare…” ci lancia l’assist Antonello e noi lo interroghiamo sulle feste epiche da lui organizzate e subite, e il racconto si invischia nella nostalgia di aver visto cose che noi umani possiamo soltanto immaginare…

E poi, proprio mentre la serata sta scemando e io comincio a pensare che non è andata poi così male, vengo assalita dalla nausea. Il segnale che mi lancia il mio corpo non potrebbe essere più chiaro: devo vomitare, e il solo pensiero mi paralizza.
Mi chiudo in bagno, mi infilo due dita in gola, ma senza successo. Esco ripetutamente a prendere boccate d’aria che però danno un sollievo solo momentaneo. È una cosa su cui non posso esercitare nessun controllo. È il corpo, con i suoi bisogni primordiali, che non rispondono nemmeno alla volontà più ferrea.

Se fossi stata con i miei amici, avrei espresso il mio disagio, dichiarato che la mia serata finiva lì e sarei andata mestamente a casa a finire il lavoro. Ma lì, con loro, come potevo fare? Cosa avrebbero pensato di me? Che mi ero sbronzata come un’adolescente? Che non fumo mai, quindi un paio di sigarette mi avevano fatto stare male? Forse era stata proprio l’ansia da prestazione a portarmi alla nausea.

A questo pensavo, mentre cercavo di non ascoltare i crampi allo stomaco e mi dirigevo con Marco, Vale e Matteo verso la macchina. Facevo la conta dei minuti che mi sparavano dall’intimità del mio bagno, e pensavo che potevo farcela a trattenermi, quando ho sentito lo stomaco strizzarsi nuovamente.  

E così la nostra prima uscita insieme sarà ricordata come la serata in cui ho preso Valentina per un braccio e con tono gioviale le ha detto: “andate pure, io vi raggiungo, dopo aver trovato un angolo dove vomitare.” Così, testuali parole. Lei ci ha messo un attimo a registrare l’informazione, poi mi ha seguito premurosa sfoderando un pacchetto di fazzoletti.

Un modo abbastanza anticonvenzionale di rompere il ghiaccio, lo riconosco, ma sicuramente efficace.
Dopo questo, come farò a sentirmi nuovamente in imbarazzo in loro presenza?  

Fortebraccio si prepara a rinverdire i fasti passati.